Alla ricerca del cantautore israeliano Asaf Avidan e delle mie origini ebree, decido di partire per Tel Aviv e scoprire perché il formaggio non può esser affiancato alla carne e che senso hanno i boccoli laterali degli ebrei. Ma non farò in tempo - quando mi addormento sull'autobus e scendo, gli unici perché che mi interesseranno saranno quelli dei militari che mi sparano dietro in Palestina.
Durante i miei frequenti viaggi in giro con il sacco a pelo per il mondo, ho incontrato tantissimi israeliani. Popolo cui nome mi diceva qualcosa solo perché spesso associato nei Tg ai conflitti, scontri ed ebraismo a tratti estremo. Visualmente apparivano nella mia immaginazione con le kippah sulla testa, da me denominati ‘ centrotavola ’, e le basette laterali payote cui stile, larghezza del boccolo e sistemazione aiutava a categorizzare l’appartenenza ai vari paesi ebraici. Dimmi che boccolo hai e dove lo metti e ti dico chi sei.
In giro per l’Asia, i viaggiatori israeliani della nuova generazione sono molto più liberali e i payote sono stati sostituiti dalle extensions, le kippah dal cappellino rapper. A pelle questi vacanzieri non mi facevano impazzire di gioia, ne m’ispiravano rapporti sociali che andassero oltre alla frase “ What’s the time, man ? “ Sguardi sempre diffidenti, severi, molto controllati, a occhio poco aperti verso il mondo intero.
Per un po’ di giorni, incrociavo un gruppo di loro sempre alla stessa ora, e quando a un certo punto li ho salutati, la loro unica manifestazione di affetto è stata chinare la testa di lato, che ho interpretato come ‘ Sì, ok, abbiamo capito chi sei, ma da qua a gioire della tua presenza, ne passa. ‘
Un’incantevole alba più tardi decido di assecondare i miei bisogni urinari nell’unico posto raggiungibile velocemente a piedi e mi tuffo nel mare, vestita. Cercando di guadagnare una dignitosa profondità per non accovacciarmi e dichiarare le mie intenzioni, inciampo. Quando mi tiro su, sento un dolore atroce un po' su tutte le parti del corpo che sono state a contatto con la fauna e flora marina. Spine nere, affilate e lunghe mi escono dalle mani come a Edward mani di forbice, e sento le dita pulsare all’impazzata mentre scorgo decine di sorridenti ed abnormi ricci a colori allucinogeni sotto di me.
So che sulla sanguisuga bisogna urinare per farla staccare e in questo momento sarebbe un vero e proprio ‘due in uno’, ma sulle spine?
Barcollando verso la sabbia, noto un israeliano del gruppo non-salutarci-troppo, cui esistenza accettavo solo per poterla ignorare.
Senza una sola parola mi prende per il polso, mi tira per 600 metri dietro di se, mi porta in una specie di clinica provvisoria, parla col medico, mi fa accomodare sul lettino e si richiude la porta dietro. Uscendo. Non ascolto il dottore sbarbato in ciabatte che mi dice di non guardarlo mentre mi infila tremante le siringhe con l’anestesia tra le dita. Ne quando si appronta col bisturi a farmi il nono taglio lungo il dito per tirare fuori le spine ‘velenose che vanno assolutamente tolte ’, secondo lui. Non mi dilungo sul gatto che sta sdraiato con me sul lettino ne sul vomito per terra pulito male o gli schizzi di sangue sul muro, perché c’entra poco con l’Israele.
Dopo un’ora di macello carnale e 4 dita in meno, mi alzo e dico al medico di lasciare stare; la sofferenza mi sembra esagerata rispetto ai danni che, a sentirlo, il veleno possa causare rimanendo nel corpo.
Quando esco dall’ambulatorio, vedo il ragazzo israeliano ancora seduto sulla poltrona in sala d’attesa, che prova a tirare fuori le spine dal piede di un turista in attesa del suo turno.
Allora siete anche questo, penso : disponibili a modo vostro, attenti, altruisti. Dopo due giorni in loro compagnia aggiungo anche : educati, colti, curiosi. Siete in soli 5 milioni ma equivalete a un continente di leoni quando si tratta di battervi per la vostra macchia di tera. Siete in conflitto con tutto ciò che vi circonda sia umanamente che di frontiera, mandate le donne in guerra, eppure ancora nessuno vi ha sconfitti.
Per la prima volta, mi incuriosisce questo paese e mi dico che prima o poi andrebbe scoperto.
Pochi mesi fa, mia nonna RedBull famosa appunto per la sua devozione alla bibita chimica, mi porta al letto un piatto di zuppa post-operazione. Sui fondi del suo servizio in porcellana, c’è una svastica grande quanto una moneta da due euro. E’ da quando sono nata che mia nonna nega categoricamente la nostra provenienza e le origini : no, non siamo ebrei. Nonostante generazioni e generazioni di cognomi inequivocabilmente ebraici, tra cui il suo, e nonostante la sua permanenza nel campo di concentramento e lo sterminio della sua famiglia, lei ha ancora la faccia tosta di negare.
“ Nonna, basta. Basta pensare che Lui sia ancora in giro e che se ammetti chi siamo, ci sparano o fanno i saponi con le nostre ossa. Ammettilo una volta per tutte e ti lascio stare. “
Prima si guarda intorno per controllare chi ci sente e io mi rendo conto di quanto la sua mente deve esser stata violentata per provare un tale terrore ancora dopo 60 anni.
“ Qua lo dico e qua lo nego : siamo ebrei al 100% e se non mi hanno tatuato il simbolo al campo, è solo perché non avevo raggiunto i 18 anni. Altra zuppa ? “
Un mese dopo, mentre mia nonna si tatuava Hallelujah, ovvero ‘ sia lodato il signore ’ in ebraico sul petto, io prenotavo un volo per l’Israele alla scoperta di David.
Trovo una sistemazione privata direttamente a Tel Aviv, promettendomi di riposare al mare e rilassarmi, cosa che finora non sono mai riuscita a fare da nessuna parte - sono sempre finita per partecipare alle manifestazioni contro le camice rosse in Thailandia o a insegnare l’inglese agli orfani nella giungla birmana. Eppure, non me ne sono mai pentita. L’Israele non sembra avere di questi problemi, perciò temo mi toccherà veramente immobilizzarmi in spiaggia.
Tratto con il proprietario come una vera ebrea finchè non abbassa il prezzo a una cifra ragionevole ( bassissima ), salgo sull’aereo e mi preparo a ciò che tutti descrivono come lunghissima procedura di controlli israeliani. Effettivamente il poliziotto mi fa domande alquanto spiazzanti e sono convinta che più che ascoltare le risposte, è addestrato a tradurre il body-language dei passeggeri. Dove vai, perché, come mai, che lavoro fai, da quanto, cosa scrivi, chi incontri. Non mi va di dirgli che vado ad incontrare Asaf Avidan che con la sua canzone One day reckoning song ha stregato San Remo l’anno scorso, ne mi va di rispondere con battute ' turismo sessuale ’ che riservo agli americani. Qui, lo sento, mi negherebbero l’entrata per molto meno.
Per continuare a fare l’ebrea, noto come si sono arricchiti : più soldi cambi, e più paghi, niente tasso fisso. Vai con il bancomat italiano, per la prima volta più onesto. Avevo previsto di prendere il treno per la città che costava un decimo del taxi ma è veramente tardi e Asaf con la fidanzata mi aspettano per cena. Mi propongo come share-partner di un viaggiatore solitario per la corsa del taxi ed è così che mi ritrovo abbandonata con le valige all’angolo di una strada buia, puzzolente e distrutta, ma di un fascino decadente incredibile, sperando che Liraz il proprietario di casa non si sia scordato di me e non dormirò nel trolley.
Prima di decidermi per quest’abitazione, ho cercato per un mese intero sistemazioni adeguate al loro prezzo e non ho potuto non notare le numerose recensioni negative su praticamente tutte le strutture di Tel Aviv. Effettivamente, la città soffre di un leggero problema : le case e alberghi sono vecchi, mai ristrutturati, spesso senza finestre o con porte che non si chiudono, nei vicoli rumorosissimi, poco o per niente puliti e decisamente troppo costosi per lo standard europeo. Le foto delle abitazioni non corrispondono quasi mai al posto in cui alla fine pernotti. Ho fatto giurare a Liraz per mail che il monolocale fosse quello della foto e quando infila la chiave nella toppa, mi inonda un brivido di felicità : è uguale identico. Sono così eccitata all’idea di non esser stata fregata come l’80 percento dei viaggiatori contattati, che non ci credo.
( N.d.r. : Liraz di www.tel-aviving.com dispone di una palazzina di proprietà, tutti gli appartamenti sono arredati a nuovo con almeno 3 comodi posti letto, puliti, forniti di rapidissima wifi, e non hanno problemi di acqua calda frequenti in Israele. Sono a 5 minuti dal mare, nel cuore del centro, vicino alla stazione autobus/treno/altri collegamenti, mercati; nonostante ciò per niente rumorosi. Se vi capita, nello stesso palazzo appena usciti c’è un vecchio signore ebreo che cucina pranzi tipici molto economici e meravigliosamente caserecci. Liraz è inoltre un grande aiuto per gli spostamenti, info, taxi abusivi poco cari.)
In compagnia di Asaf e la sua donzella, mi riempio di hummus di ceci e tahina, e brindo con un Lachaim! ebraico a questa nuova avventura.
La mattina temporeggio la mia indecisione su cosa fare alla fermata dell’autobus e mi dico : prendo il primo che passa. La cosa sorprendente è che per quanto la città sia sviluppata e moderna e tutti parlino l’inglese, le scritte, orari e informazioni importanti sono solo in ebraico. Sfido chiunque a capire dove è diretto un qualsiasi autobus cui orari e fermate vanno lette dalla sinistra a destra, incomprensibili. Mi chiedo se - se è vero che erano gli ebrei a inventare la scrittura - per caso l’inventore fosse mancino e per non macchiarsi con l’inchiostro ha pensato bene di adeguare a se stesso il senso della scrittura, fregando così tutti i destri.
Nell’attesa entro al bar per nutrirmi con un panino e lo faccio riempire di insalata e formaggio. Poi vedo delle fettine sbiadite e chiedo cosa sono.
“ Non te li posso mettere nel panino insieme al formaggio, questa è carne. “
Nonostante io non cercassi carne, mi incuriosisco.
“ Come, scusi ? Se è per i troppi ingredienti, li pago a parte tranquillamente. “
“ No. Non posso metterli insieme. “
Ancora non ci arrivo.
“ Perché ? Non ci stanno bene ? Guardi che il panino lo mangerei io semmai. “
“ La mia religione non lo permette. Se vuoi passi dietro al bar e te lo metti nel panino tu, ma io no. O te lo compri a parte e poi ci fai quel che vuoi. “
Ah.
Sorpresa da tale attitudine a momenti leggermente estrema e ai miei occhi insensata - già fatico a tollerare il No all’aborto, soprattutto quando si tratta di stupri e altri incidenti, figuriamoci un No al formaggio - pago ed esco.
Non più come scelta ma come necessità in quanto non capisco ne dove sono ne dove mi devo dirigere, salgo sul primo autobus e scendo all’ultima fermata. Stazione centrale. Scorro la tabella con i veicoli in arrivo e rido tantissimo; nemmeno qui le scritte appaiono in cirillico. Mi affido al mio senso animalesco e mi metto in coda dietro ai militari di un’incredibile fascino con denti bianchi e occhi scuri, attenti ma non fastidiosi, e mi accomodo. Anche l’ultimo dei peggiori bus in Israele dispone di una connessione wifi e allora decido di comunicare a mia madre che sono all’estero. Scendo a Gerusalemme, nota per i suoi siti religiosi, il muro del pianto e fortezze storiche e non capisco come mai in questa città di dislivelli, ovunque tu vada, sali solo. Mi perdo nei tunnel sotterranei bui, finché non mi ritrovo in una piazza enorme piena di esercito, altri boccoli laterali, bambini, qualche straniero, tutti intenti ad andare a pregare al muro. Ipnotizzata, li seguo.
Urla strane e una mano aggrappata alla spalla mi fanno tornare alla realtà : un militare con occhi sbarrati mi dice che non posso assolutamente entrare nel reparto uomini, c’è una parte del muro dedicata a sole donne. Come nei bagni pubblici o spogliatoi. Anche qui, mi chiedo dove va un drag queen e i suoi simili.
Decine di ragazzine, vecchiette e soldatesse a testa abbassata ondeggiante a ritmo di preghiera e mani incollate sul muro, sussurrano le loro richieste e desideri ai migliaia di mattoni, infilando poi il tutto per scritto tra i sassi. Sarei veramente tentata di aprire il biglietto della soldatessa col mitra; non avrà mica chiesto la pace nel mondo ?
Tiro fuori il mio bigliettino da visita con il sito del blog e sul retro scarabocchio qualcosa sulla libertà degli animali. Piego e infilo. Sto per andarmene quando noto che bisogna andarsene camminando all’indietro fino all’uscita sita a 200 metri dal muro. Ora mi spiego meglio le sedie rovesciate per terra e gente che inciampa.
Passo ore a capire come uscire da questo labirinto storico, ma mi manca l’eccitazione e l’adrenalina della scoperta vera e propria.
Riprendo un altro autobus numero 21, l’unica scritta capibile, a mi accascio sul sedile.
La voce del conducente mi sveglia ricordandomi che anche le fermate hanno i propri limiti e non sono infinite, e mentre mi scuso ridendo, scendo incontro a un paese immerso nella luce pomeridiana, con numerose casine bianche sparse sulle montagne. Non ho idea di dove mi trovi ma siccome il flusso dei passeggeri si dirige a sinistra, io vado a destra.
“ Lì non c’è nulla lady, va dall’altra parte “, dice un tipo.
Naturalmente lo ignoro e vado a cercare il nulla promesso, fischiando e canticchiando sulla strada principale, costeggiando casette dismesse e malconce con divani buttati nel giardino e sporcizia di un certo fascino.
Sorpasso un ragazzino con una fionda in mano e sassi nell’altra, guardo in alto per cercare gli ucellini-vittime. Per sicurezza mi giro per controllare di non esser io il bersaglio del suo giochino, e vedo che mentre continua a lanciare sassi, cerca comunque di nascondersi dietro di me. Vabbè, finché non li tira a me, gli sorrido.
Riportando la testa verso la direzione che precede i miei passi, noto in lontananza dei poliziotti o qualcosa del genere e mi dico Ah però!, si allenano anche qui, in mezzo al nulla.
Uno di loro urla qualcosa nella mia direzione e agita la mano. Altri cinque militari anche. Mah. Per non sembrare egocentrica e credere che si rivolgano per forza a me, continuo a camminare. Per mancata comunicazione invece di spostarmi proseguo verso loro, ancora fischiando.
Vedo le loro braccia alzare una cosa nera e grande, sento un boato, e più con l’orecchio e la coscienza che con la vista capisco all’istante una cosa :
Dio, hanno sparato. Hanno sparato ? Hanno sparato cazzo !
Così terribilmente vicino alla mia testa che non sento più niente. Ma dove cristo sono ? In un video gioco ? Non realizzo assolutamente ne il pericolo, ne la situazione, ne la locazione, nulla : avanzo incavolata verso la troupe, e una debole lampadina comincia a fare luce nella mia testa solo quando scorgo la scritta Bank of Palestine alle loro spalle. Ma è troppo tardi, lo sto già insultando, non mi sento più ebrea, solo un esser umano che quando si gira e vede i ragazzini storditi dal gas coprirsi la bocca e correre via...non ci vede più dalla rabbia.
Il soldato incassa i miei insulti senza battere ciglio, sempre se questa metafora si possa usare con qualcuno che è corazzato di plexiglas in faccia, casco e giubbotto antiproiettile, granate attaccate alla coscia, mitra in spalla e spara-gas in mano.
Ho capito; sono in Palestina.
Non posso credere che alla luce del giorno con una palese turista in vista, Nikon e cartellino journalist/photographer al collo, lui possa aver rischiato di ferirmi. Non voglio immaginare cosa facciano ai profughi allora; ma sono seriamente intenzionata a scoprirlo. Sorpasso i militari che hanno il buonsenso di non rispondermi ne portarmi in caserma, e cammino finchè non arrivo davanti a un bivio : il muro dell’Apartheid lungo 700 km per isolare la Palestina a destra, il campo profughi palestinesi a sinistra.
Scelgo la sinistra. Apro il cancello con la scritta Conflict Resolution Center, munendomi di pietre e fionda affittata al volo da un marmocchio - magra consolazione - e attraverso il cimitero per addentrarmi nel vero orrore negato dalla maggior parte dei giornali.
Ma sarà un altro racconto.