Lusso sfrenato, strade infinitamente larghe, piste da sci e acquari con squali nei centri commerciali, isole artificiali ed edifici più alti che larghi che contrastano una realtà completamente opposta appena ci si sposta dai quartieri in : Dubai. Una meta che ho scelto unicamente per la convinzione di ' provare prima di giudicare '.
Un’altra destinazione, dopo Miami, che ho sempre attribuito a quelli senza fantasia o volenterosi di spendere tanto per vedere poco. Le persone che rispondevano alle mie domande sulla città in questione, includevano sempre le parole ‘ incredibile, pazzesca, lusso, palazzi... ' Insomma, caratteristiche che mi farebbero scartare una destinazione a priori. Un po’ per curiosità, un po’ per masochismo, un po’ per ‘ vedere prima di giudicare ’, intraprendo la lunga e tortuosa strada verso il visto per gli Emirati Arabi.
Per la prima volta prenoto il biglietto ben un mese prima, aspettandomi che la burocrazia dell’ambasciata sia comunque lenta. Quale non è il mio stupore quando scopro che tra i pochissimi paesi del mondo che necessitano di un visto prima di salire al bordo, c’è anche la Slovacchia, quel paese che non dispone di un’ambasciata degli Emirati in Slovacchia. Poco male, in quanto l’ambasciata degli Emirati Arabi è l’unica al mondo a non rilasciare il visto. Lì per lì mi sfugge quale quindi dovrebbe essere il modo per ottenerlo, e pare quest’informazione sfugga anche a tutte le istituzioni incaricate di fornire le dritte. L’ambasciata rappresentante in Italia mi dice di ‘ partire tranquilla e chiedere il visto all’arrivo come tutti gli italiani, visto che sono residente in Italia, pur avendo il passaporto slovacco ’. L’ambasciata slovacca mi dice che non funziona così, e di chiedere quindi all’hotel che mi ospiterà di applicare la richiesta del visto all’emigration office e farmelo spedire per poi ritirare l’originale all’aeroporto di arrivo. Quell’aeroporto di arrivo dove non mi fanno arrivare se non esibisco il visto già all’aeroporto di partenza.
Il mistero continua, così come il mio stupore continua ad alternarsi all’incredulità.
L’agenzia di viaggi slovacca mi offre il proprio aiuto a patto che io prenoti un 4 stelle da loro. L’agenzia di viaggi italiana non mi offre proprio nulla. La Emirates con una piccola somma in più si occuperebbe del visto, basta prenotare il volo meno economico in assoluto di andata e ritorno con loro.
I siti di servizio visti on line si offrono di risolvere tutto per me, in cambio di una cifra salata, ma non garantiscono la riuscita del visto e non rimborsano. In ogni caso, sono agenzie fake e me ne accorgo verificando i numeri delle linee fisse e gli indirizzi inesistenti.
Non è possibile che non ci sia un modo per i viaggiatori backpackers e non turisti-5-stelle di esplorare il paese, mi dico. Dopo due settimane di ricerche accanite scopro che il modo più ordinario ma allo stesso tempo impraticabile è quello di chiedere a un local sponsor di andare con i miei documenti all’ufficio immigrazione di Dubai, invitarmi nel suo paese e garantire per me, depositare una somma che non gli viene mai più ridata se sgarro di un giorno o mi trovano brilla, pagare il visto e sperare che se e quando arrivo, glielo rimborso.
Il local sponsor deve esser un nativo di Dubai ( è come cercare un milanese tra i carabinieri ), oppure deve essere una società autorizzata che mi invita come partner lavorativo. Tutto questo per assicurarsi che io non vada a prostituirmi. ( Come se in quella città oltre alle donne burqa non esistessero altre, con servizi e disponibilità ben più ‘ sconce ’. )
Su Facebook trovo per caso un nativo di Dubai che si offre di aiutarmi e mi chiedo se la cosa non mi costerà un rene o due mesi di lavori forzati per ripulire il centotrentesimo piano di Burj Khalifa. Contemporaneamente, chiedo anche al mio hotel di avviare una pratica, in quanto per legge ogni stabilimento deve farlo. Ma mi accorgo in fretta che chi non spende un patrimonio in alberghi di lusso, non riceverà mai una risposta positiva da essi. Prenoto quindi una struttura talmente cara che la cancellazione del soggiorno è gratuita, e con lo scopo di annullare tutto appena avrò il visto, mando i documenti necessari. I documenti necessari. Detto così sembra un’affermazione superflua, ma quando leggo la lista dei documenti richiesti, riprendo all’istante a mangiarmi le unghie :
- due pagine del passaporto completamente libere per dimostrare che io abbia spazio sufficiente per l’applicazione del visto ( che si ridurrà a uno stampino minuscolo su una pagina completamente diversa e per niente vuota )
- scansione delle ultime pagine
- scansione di entrambi i lati di una carta di credito con almeno 5000euro sopra
- autorizzazione a usufruire dei miei soldi per il costo del visto e per il deposito di 2000 euro che mi verrà rimborsato una volta mandata la scansione del timbro sul passaporto che dimostra che me ne sono tornata a casa e che no, non sono stata nemmeno un giorno in più del previsto
- assicurazione sanitaria
- hotel pagato
- ritorno pagato
- il consenso di mio padre che è d’accordo e al corrente che le sue due figlie vadano in vacanza, pur non essendo sposate e accompagnate dai mariti nonostante i trent’anni passati
- il cognome di mia madre prima che si sposasse
- la religione di tutti i familiari
- foto documento a colori
Dopo tre giorni l’albergo mi comunica che la procedura non è andata a buon fine in quanto la Slovacchia ‘ è un paese difficile e ci vogliono più giorni del previsto per il visto, e non facciamo in tempo ’. L’altro ufficio mi fa notare che la pratica è stata rifiutata in quanto su una delle foto scansionate di mia sorella non le si vedono i denti ( solo mio padre dentista si era dimostrato comprensivo riguarda a quest'obiezione ).
Mancano tre giorni alla partenza, ho speso migliaia di euro per ottenere un documento che non è nemmeno detto che approveranno, e ancora niente. Il mio aiuto di Facebook sparisce dicendo che gli è morta la zia ma che Sì, lo farò, tranquilla. La partenza del 9 è un’utopia, biglietti non rimborsabili, e sul nostro viaggio soccombe una nuvola grigia più fitta dello smog di Bangkok - l’8 sera fisso il soffitto senza ancora nessun visto in arrivo.
Poi, Buddha deve avermi sorriso - mi arriva la mail dello sconosciuto sopravvissuto alla zia, contenente un’anteprima dei visti da ritirare.
Faccio appena in tempo a fare i bagagli e con un sorriso a 42 denti mi fiondo verso Malpensa. Riprendo vita solo all’arrivo in dogana, quando effettivamente dopo 16 file sbagliate mi viene consegnato il mio visto di 4 pagine sul quale l’unica informazione mancante è il gruppo sanguigno della mia nonna ebrea.
Cerco di scrollarmi di dosso le aspettative e di non essere influenzata dai racconti su Dubai precedentemente sentiti. A primo impatto ciò che noto, è l’incredibile quantità di diverse nazioni che convivono nella città di nessuno, costruita in pochissimo è divenuta in ancora meno tempo un capoluogo di lusso sfrenato e megalomania costruttiva fieramente dichiarata.
Il velo integrale da cui spesso non spuntano nemmeno gli occhi si alterna ai jeans a vita bassa e tacchi delle donzelle gold-diggers palesemente straniere, decolorate e maggiorate. Gli uomini camminano seri e dignitosi coperti di abiti di lino bianco, lunghi, stirati alla perfezione e paradossalmente senza visibili aloni di sudore, seguiti dalle esili figurine nere con passi corti.
All’uscita dell’aeroporto, mi chiedo dove avrei dovuto cercare i miei eventuali amici se fossero venuti a prendermi, in quanto le aree di attesa si dividono in maschili e femminili. Ovviamente mi chiedo dove un povero transessuale debba mettersi.
Non posso nemmeno prendere il primo taxi disponibile; devo aspettare quello rosa con la conducente femminile. Comincio a capire meglio perché tutto questo esagerato ‘ rispetto ’ del corpo femminile porta ad alzare la quantità delle lavoratrici svestite che incassano 3000 euro nelle royal suites per aver fatto vedere il fianco a uno sceicco.
L’impatto notturno della città non è sempre quello giusto, anche se, vista l’allucinante quantità di luci, è difficile parlare di notte. Pulsano di tutti i colori, intensità, a tutte le altezze e su tutte le strutture. Ma non è un lampeggiare di luci à la thailandese che rappresenta un “ siamo qua, vogliamo attirare la tua attenzione ”; è un lampeggiare di “ brilliamo di luce propria ”.
Guardo il cielo. Naturalmente, di stelle nessuna traccia : le avranno usate tutte per costruire gli alberghi.
Per quanto centrale possa essere la nostra dimora, ci rendiamo subito conto che a Dubai è impossibile fare una qualsiasi cosa a piedi, nonostante ci sia ancora relativamente fresco. Le strutture sono talmente complete e fornite, che qualsiasi hotel/torre/ufficio possiede la sua palestra e il suo supermercato, e quindi uscire per farsi una passeggiata non serve a nulla, perché le zone sono divise a tema : Internet City. Media city. Knowledge Village. Mercati. Centri commerciali. Spiagge. Il quartiere dei grattacieli.
Il servizio taxi è impeccabile e incredibilmente economico e non trovereste mai un locale che lo conduce - tutti rigorosamente stranieri. Stranieri che in poche notti tirano su interi edifici. Stranieri che, appesi al trentottesimo piano, lavano le finestre degli uffici da fuori. Stranieri che puliscono perennemente le strade e le loro inesistenti sporcizie.
Le donne non lavorano. Non sono sicura se è per perseverare la loro integrità o perché si pensa che non sappiano fare tanto. O perché, come mi illumina un arabo, ‘ bisogna non fidarsi delle mogli dando loro in mano un business. ‘
Le si può vedere nei futuristici centri commerciali, come scelgono il loro vestito, anche se a noi può risultare divertente il criterio secondo il quale preferiscono un drappo nero all’altro. Cerco di immedesimarmi nei loro pensieri : scelgo un burqa con il brillantino rosso sulla schiena o quello con il ricamato verde sul polsino ? Altrettanto divertente deve essere la scelta del vestito per uscire la sera; le immagino che si mangiucchiano le unghie davanti alle ante spalancate dell’armadio che propone capi identici tra di loro. Noto però che mentre alcuni capi strusciano per terra e coprono addirittura le calzature, altri sono osé e fanno vedere la scarpa. Con un pizzico di paradossalità immagino una giovane riflettere se stasera fare la brava e mettere quello lungo o fare la sconcia e mostrare la caviglie.
E’ però frequente trovare queste donne nei negozi di biancheria intima tutt’altro che coprente, o uscire dal negozio con scarpe dotate di tacchi vertiginosi e più ci penso, più trovo sensuale il fatto di dovere immaginare la donna, non di trovarsela già là, semisvestita col jeans a vita bassa, mutande che escono fuori, maglietta attillata. Certo, sono quasi due estremi opposti , ma incontrare due occhi e avere a disposizione solo quelli per capire se ti sorride, t'osserva o ignora, è in qualche modo molto più curioso.
Solo il 14 percento della popolazione di Dubai è nativa di Dubai, e ho la fortuna di incontrare due fratelli del posto. Mi spiegano che le donne interamente coperte non sono originarie degli Emirati, ma dell’Arabia Saudita, e devono coprirsi anche il viso una volta ‘ tolte dal mercato ’, ovvero impegnate. Chiedo allora come fa un bambino persosi per strada a riconoscere sua madre, perché dal momento che essa è di schiena, non gli rimane più nemmeno la possibilità di riconoscerla dagli occhi. Ahmed ride.
“ Sai, le mie impiegate sono quasi tutte coperte, e dopo due anni posso distinguerle da dietro, dal linguaggio del corpo, camminata, odore, voce, movimenti. Fidati che se ci riesco io, allora anche il suo figlio. “
Allora gli chiedo come fanno, per esempio, a trovarsi sui social network. Mettiamo che mi faccio un’amica e la voglio aggiungere su Facebook. Faccio la prova. Con il suo nome mi escono sette profili. Solitamente si riconosce quello giusto dalla foto del profilo. Come faccio, avendo a disposizione sette facce completamente coperte ?!
Ahmed ride di nuovo e dice che mi farà sapere.
Lascio il complesso e l’immenso acquario con gli squali in mezzo ai negozi che va visto solo per non poterci credere, e decido di salire sulla prima metro e di scendere dove capita. I vagoni sono ovviamente divisi e mentre allungo comodamente il mio corpicino sui sedili vuoti, osservo la massa di maschi stringersi uno contro l’altro nel vagone maschile per mancanza di spazio. Sale una turista con il marito e decide di ignorare questa abitudine ma viene prontamente richiamata da una ragazza filippina e pregata di mandarlo di là. Una volta in più, mi colpisce la perfetta convivenza e il rispetto delle regole ‘ arabe ’ di questo posto, nonostante la maggioranza degli abitanti sia di religioni completamente diverse.
Come è possibile che a Milano non si riesca a fare convivere i calabresi con i lombardi mentre qui nessuno sgarra ? Facile : gli Emirati danno la possibilità a tutti. Ma una. Vieni, lavori, guadagni, vivi. Rispetta le regole e sarai rispettato. Ma sbaglia di un millimetro e la tua patente, il tuo visto e la tua licenza vengono cancellati dagli archivi.
Scendo là dove nessuno scende, forse perché ormai siamo solo io e mia sorella, sulla metro. Il sole sta calando e ho la fortuna di essermi persa in un labirinto di stradine strette, maleodoranti e buie del quartiere indiano. Mi sento immediatamente felice e finalmente mi sento viaggiare e scoprire, non scendere dal taxi e visitare. Mi sento come mi sono sentita in India, ogni giorno della mia lunga permanenza, e nell’aria c’è di nuovo quel qualcosa di misterioso. Mi torna il sorriso in faccia quando vedo le vecchiette vendere collane di fiori freschi : sono le offerte indù, perciò deve esserci un tempio. Ne compro due e la signora è così entusiasta del mio amore per la sua religione che mi presta una sciarpa per coprire le spalle di mia sorella e poter entrare nel tempio. Ci togliamo le scarpe e ci accodiamo; sarà lunga, pare oggi ci sia qualche babà santone e nessuno se lo vuole perdere. Non so se sono più io a fissare le vecchie signore per terra che accompagnano i loro lavori manuali da una specie di mantra canticchiata o la folla indiana a fissare noi. Poco prima di raggiungere l’entrata, una mano ci ferma : il poliziotto. Scuote energicamente la testa in segno internazionale di un NO.
“ Please “, gli sussurro, ma con poco successo.
“ Perché vuoi entrare ? “, chiede.
Mi ricordo che al collo porto una Nikon che dà abbastanza nell’occhio, e in più è accoppiata al tesserino giallo Giornalista/Fotografa. Tolgo tutto dal collo e glielo porgo.
“ Non era per documentare; voglio entrare perché sono buddista e perché ci credo. “
Il poliziotto sorride, mi dice di tenere tutto perché si fida, e mi fa entrare. Ecco cosa mi manca ogni giorno, penso, la fiducia e l’empatia delle persone.
Ai piedi del santone, in ginocchio, mi scordo di essere a Dubai. Ma poi mi dico : Dubai è anche questa. Un ex deserto che ha dato la possibilità a ogni nazione di crearsi un pezzo della propria terra qui, per farli stare meglio. Una comunità a se stante, rispettata. Che contenga chiese, templi o moschee, non importa.
Non importa che le donne si facciano il bagno completamente vestite e quando sgocciolano, si cambiano nella cabina solo il velo per mettere quello asciutto. Non importa che il burqa che sa di passato, si è ormai abbinato al futuristico i-Phone. Che il vestito maschile di lino bianco sia portato insieme alle All Stars e cappellino da basket messo di traverso, su una Ferrari. Non importa che sulla copertina del quotidiano hanno premiato una donna per il suo impegno sociale ma noi non sapremo mai che faccia abbia. Non importa che alcuni pakistani si bruciano la faccia al sole solo perché vengono a guardare la pelle nuda delle straniere in spiaggia. Non importa che hanno voluto una pista da sci in un centro commerciale, non importa che hanno persino una macchina che crea apposta la nebbia ( mai incontrato uno sciatore che preferisca la nebbia ). Non importa che per fare notare la loro auto appena acquistata, tengono la plastica sui sedili.
Non importa che tonnellate di sabbia siano state trasformate da qualcuno che ha capito che prima o poi il petrolio finirà, in un investimento che oltre a una massa di attrazioni inutili, propone anche cultura, divertimento, business e livello di vita più che decente.
“ Non vi dà fastidio che a casa vostra non si parla nemmeno più la vostra lingua, solo l’inglese, è che basta avere i soldi per comprarsi tutto ? “, chiedo ad Ahmed mentre saliamo nell’ascensore.
Scuote la testa e ride.
“ Perché ? Quando sono nato, guardando dalla finestra, non potevo ammirare Burj Khalifa. Non solo perché non c’era; perché non avevamo nemmeno una finestra. Sabbia, sabbia, e sabbia. Niente strade, niente macchine, niente turismo, niente lavoro. Un pezzo di terra inutile e scordato dal mondo. Guarda ora…ahh, vedi quei taxi ? E’ la mia compagnia. E’ grazie a quelli che ora posso abitare qui “, dice e schiaccia il 36esimo piano - ci tiene che io non veda Dubai solo a pezzi, ma tutta insieme.
Oltre alle manie mondiali di mondi e palme ricreati nel mare, scopro comunque un popolo cordiale e disponibile che fa sicuramente le sue porcherie, ma senza farle vedere.
E ho sempre pensato che la classe è saper fare le cose volgari di nascosto.