Quella situazione che, vista al TG, ci fa pensare a ' quanto il mondo sia brutto ', prima di cambiare canale. Quando mi ci sono trovata dentro, ho realizzato che non è il canale che va cambiato, ma l'umanità : benvenuti all'AIDA, Campo Profughi Palestinesi.
La voce del conducente israeliano mi sveglia ricordandomi che anche le fermate hanno i propri limiti e non sono infinite, e mentre mi scuso ridendo, scendo incontro a un paese immerso nella luce pomeridiana, con numerose casine bianche sparse sulle montagne. Non ho idea di dove mi trovi ma siccome il flusso dei passeggeri si dirige a sinistra, io vado a destra, stiracchiando le mie gambe addormentate. Presumo di essere in qualche paesino vicino a Gerusalemme, in quanto l’unica scritta comprensibile sugli autobus della città erano i numeri. E allora ne avevo preso uno a caso. Il 21.
“ Lì non c’è nulla lady, va dall’altra parte “, dice un tipo.
Naturalmente lo ignoro e vado a cercare il nulla promesso, fischiando e canticchiando sulla strada principale, costeggiando casette dismesse e malconce con divani buttati nel giardino e sporcizia di un certo fascino.
Sorpasso un ragazzino con una fionda in mano e sassi nell’altra, guardo in alto per cercare gli ucellini-vittime. Per sicurezza mi giro per controllare di non esser io il bersaglio del suo giochino, e vedo che mentre continua a lanciare sassi, cerca comunque di nascondersi dietro di me. Vabbè, finché non li tira a me, gli sorrido.
Riportando la testa verso la direzione che precede i miei passi, noto in lontananza dei poliziotti o qualcosa del genere e mi dico Ah però!, si allenano anche qui in mezzo al nulla.
Uno di loro urla qualcosa nella mia direzione e agita la mano. Gli altri cinque anche.
Mah.
Per non sembrare egocentrica e credere che si rivolgano per forza a me, continuo a camminare. Per mancata comunicazione invece di spostarmi proseguo verso loro, ancora fischiando.
Vedo le loro braccia alzare una cosa nera e grande, sento un boato, e più con l’orecchio e la coscienza che con la vista capisco all’istante una cosa : Dio, hanno sparato. Sparato. Hanno sparato ? Hanno sparato, cazzo !
Così terribilmente vicino alla mia testa che non sento più niente. Ma dove Cristo sono ? In un video gioco ? Non realizzo assolutamente ne il pericolo, ne la situazione, ne la locazione, nulla : avanzo incavolata verso la troupe, e una debole lampadina comincia a fare luce nella mia testa solo quando scorgo la scritta Bank of Palestine alle loro spalle. Ma è troppo tardi per ritirarmi, il sangue mi bolle già, lo sto già insultando, non mi sento più ebrea, solo un esser umano che quando si gira e vede i ragazzini storditi dal gas coprirsi la bocca e correre via...non ci vede più dalla rabbia.
Il soldato incassa i miei insulti senza battere ciglio, sempre se questa metafora si possa usare con qualcuno che è corazzato di plexiglas in faccia, casco e giubbotto antiproiettile, granate attaccate alla coscia, mitra in spalla e spara-gas in mano.
Ho capito; sono in Palestina.
Non posso credere che alla luce del giorno con una palese turista in vista, Nikon e cartellino journalist/photographer al collo, lui possa aver rischiato di ferirmi. Non voglio immaginare cosa facciano ai profughi allora; ma sono seriamente intenzionata a scoprirlo. Sorpasso i militari che hanno il buonsenso di non rispondermi ne portarti in caserma, e cammino finchè non arrivo davanti a un bivio : il muro dell’Apartheid lungo 700 km per isolare la Palestina a destra, il campo profughi palestinesi a sinistra.
Un muro che isola un’intera popolazione per punirla di ‘ occupare ’ un pezzo di terra. Non mi sfugge l’assurdità della situazione : voi palestinesi non volete rinunciare a una terra che secondo noi ci appartiene, e allora vi puniamo per il fatto che la occupiate tenendovi chiusi dentro questa terra. Così possiamo continuare a punirvi all’infinito per la sua occupazione.
Scelgo la sinistra del campo profughi, naturalmente. Apro il cancello con la scritta Conflict Resolution Center, munendomi di pietre e fionda prestata al volo da un marmocchio - magra consolazione - e attraverso il cimitero per addentrarmi nel vero orrore negato dalla maggior parte dei giornali.
Non so cosa aspettarmi, so solo che se i soldati sulla strada principale erano in grado di spararmi poco fa, qua dove l’occhio non vede ma il cuore duole lo stesso, non deve esser più semplice.
Ho il maledetto ‘ dono ’ di non sentire paura nelle situazioni potenzialmente critiche; mi aspetto di fare faccia a faccia ai pericoli inesistenti nelle situazioni più comuni, ma quando dovrei preoccuparmi per la mia incolumità, qualcosa mi sfugge sempre. Tendo a dare la colpa all’eccessiva produzione di adrenalina nel mio corpo, quella che mi fa scavalcare mari e monti quando mi batto per cause a cui tengo. E questa fa indubbiamente parte di una di quelle.
Inciampo su una pietra, mentre i miei occhi cercano di seguire l’udito che ha appena fatto un sussulto sentendo un boato poco lontano da me. Una nuvola di fumo denso e nero sale sopra gli alberi, e allora aggiusto la direzione del mio cammino verso l’accaduto. Subito dopo, un’altra nuvola innocentemente bianca si disperde nell’aria.
La pietra sulla quale inciampo porta un nome, e mi rendo conto che è un pezzo di lapide. Intorno a me, tombe incredibilmente strette e ammassate, mezze distrutte, fanno da cornice a quest’atmosfera già di per sé abbastanza macabra. Mi auguro che nessuno abbia avuto la pessima idea di scrivere Riposa In Pace sulle lapidi; sarebbe un paradosso, considerato che già non si può vivere in pace, qui.
O forse invece sarebbe un augurio appropriato, vivere in pace almeno dopo la morte.
Tante tombe sono aperte di lato e semplicemente vuote, nonostante appartenenti ai nomi delle persone decedute. Mi segno mentalmente di chiedere a qualcuno il perché.
Nell’area del cimitero, un parco giochi abbandonato e desolato, con due altalene e un gruppo di bambini. Non giocano a nascondino; giocano a chi riesce colpire l’avversario con più pietre. Quest’immagine sarà l’unica immagine un po’ ‘ idilliaca ’ che mi ricorderò del campo, nonostante disturbata dagli spari cui origine e motivo ancora non ho localizzato e capito.
Seguo ipnotizzata i boati fino a imbattermi in una strada che costeggia il muro dell''Apartheid lungo 700 km e alto 8 metri : è la strada che circonda il campo, la strada dalla quale i militari possono comodamente sparare nel cuore delle baracchine, senza rimanere incastrati nelle minuscole stradine dei profughi e rischiare di non uscirne più.
Mi imbatto in un corpo a terra, dietro all’albero
“ Hey you “, dico, malsanamente pensando fosse morto.
Si gira di scatto. E’ un ragazzo sui trent’anni e mi guarda con occhi sbarrati.
“ Mi hai spaventato “, dice.
Sorrido senza volere; a due metri da lui volano granate, e un’offerta di aiuto lo spaventa. Questa la dice lunga sulla situazione qui, penso.
Tira fuori una Canon malmessa da sotto la maglietta, la pulisce, e riguarda le immagini.
“ Posso scattare foto qui dentro anch’io? “, gli chiedo.
Dà un’occhiata al mio tesserino al collo.
“ Ai militari che sparano ? Tu in teoria sì. Ma non te lo lasciano fare. “
“ E tu ? “
“ Io no. Io sono un profugo palestinese. Se non mi nascondo bene o non corro in fretta, o mi prendono e tengono dentro o sparano. “
Arriccio la fronte.
“ Sparano ? Chi ? Perché ? “
Mi guarda.
“ Sei apena arrivata ? “
“ Sì. E anche per sbaglio devo dire. “
“ Hai paura ? “
“ Non ancora. “
“ Allora seguimi. Nascondi la Nikon e stammi dietro. “
Non so chi sia quest’essere e ancora non mi sfiorano i dubbi. Costeggiamo l’infinito muro che limita la visuale di migliaia di persone ai graffiti lasciati dai volontari e dagli abitanti, sorpassiamo la base militare con tanto di soldati con mitragliette in vista, e ci avviciniamo al check-point per l’Israele.
“ Vedi, posso dire che io nella mia vita ho viaggiato. A piedi. E sempre solo fino a qua. “
Quel qua si riferisce a un controllatissimo cortile-gabbia stretto e lungo che porta verso il mondo; un cortile dal quale pochissimi palestinesi fortunati con il permesso hanno il diritto di uscire. Praticamente nessuno dei profughi. Mohamed, non lo fanno nemmeno avvicinare e i tassisti in cerca ai clienti hanno il diritto di portare le persone solo all’interno della Palestina.
Un esempio pratico : se perdo l’ultimo collegamento per l’Israele, non c’è un taxi che mi ci possa portare in quanto non può attraversare in nessun modo il check point. Dovrei andare a piedi fino all’ “ altro lato del muro ", dove il mondo poco distante cambia radicalmente, dove tutto funzione come se nulla di anormale stesse succedendo oltre al muro.
E’ molto difficile gestire e anche descrivere le sensazioni che mi assalgono; non sono un’emotiva, ma alla vista dei migliaia di messaggi disperati scarabocchiati sul muro che elemosinano la pace, deglutisco a fatica.
“ Andiamo al campo, Mohamed. “
Mi squadra e sorride, stringe gli occhi.
“ Tu, Slovacchia....sai correre in fretta ? “
Non riesce proprio a memorizzare quel’ “ Andrea ”.
Penso all’ultima volta che ho sudato correndo, con il controllore del bus dietro di me. Situazione non paragonabile, ma il lato pratico c’era.
“ Se devo, sì, Palestina. Cosa fai con le foto scattate al campo ? Le vendi ai giornalisti ? “
“ No. Quasi sempre mi beccano e me le fanno cancellare. E poi, pochi vengono qui. Se vengono, sono troupe organizzate e in quei casi i militari li notano e non sparano. Le faccio perché spero che prima o poi qualcuno le pubblichi e capisca cosa succede veramente qui dentro. “
Mentre parliamo, scendiamo il viale per tornare al campo. All’entrata, un enorme arco a forma di toppa, con un enorme chiave sopra. E’ la chiave verso la pace, una metafora teoricamente riuscita : questo è l’attrezzo, qua lo devi mettere, ed è fatta, non ci vuole niente. Qualche anno fa, la Germania ha prelevato la chiave per esporla a una mostra, e l’ha riportata con centinaia di scritte a favore della Palestina.
Bellissimo gesto, ma le scritte non bastano. I volontari non bastano. Parlarne al Tg non basta. Mandare aiuti non aiuta.
Un intero branco di bambini da 5 a 14 anni si sposta su e giù per il viale, in modo da affrontare tutti insieme eventuali attacchi dei soldati. Sono dei marmocchi; eppure invece dei sorrisi e occhioni innocenti, noto e percepisco solo diffidenza, dubbi, violenza, rabbia, orgoglio. Non sono nemmeno a metà strada dell’esser adulti ma il loro comportamento è già aggressivo, minaccioso, vissuto. Veloci, scaltri, pieni di cicatrici, non hanno nulla da perdere.
Non so esattamente cosa rappresenta per loro un faccia bianca che cammina con la macchina fotografica verso di loro, ma mi faccio una vaga idea quando, con un segnale tra loro che a me sfugge, vengo ricoperta da una pioggia di pietre e palline di vetro.
“ Habibi, stop “, grido alzando le mani in segno internazionale di ‘ mi arrendo’ , usando l’unica parola carina in arabo che so. Ed è così che mi trovo a sputare pietre dalla bocca. No cazzo, i denti no però. Quelli non me li tocca nessuno.
Li guardo allibita. Si coprono le facce e mi circondano, mentre Mohamed cerca con poco risultato di riappacificarli. Non vogliono esser fotografati, mi pare di capire. Oppure si coprono preventivamente aspettandosi che io raccolga le pietre e mi vendichi. Metto la macchina sotto al maglione, raccolgo veramente le pietre e le porto a quello che mi sembra il capo del branco : come tra i cani, si riconosce sempre, perché prima di agire, gli altri lo guardano in cerca di approvazione. Gliele dò in mano, sperando abbia capito il messaggio nonostante la barriera linguistica - tieni, tiramene altre se vuoi, io sono venuta in pace. Sempre che tu possa immaginare cosa significhi ‘ pace. ’
Ingenuamente mi aspetto un grazie, un sorriso e una pacca sulla spalla, ma mi rendo conto che per così poco non arriveranno, dovrò sudarmi la loro fiducia. Comincio con l’imparare due-tre insulti in arabo da indirizzare ai militari israeliani, e con l’esercitarmi con le fionde personalizzate, la loro fierezza, la loro unica arma contro i militari. Il capobranco dà l’ok per farmene procurare una e mi ' presta ' anche un bambino che posso fotografare. Ma solo di spalle; e controlla scrupolosamente le mie immagini facendomele cancellare se troppo identificabili. E’ già un inizio, penso.
Mi sento un po’ come un cucciolo di gatto circondato dalle iene affamate che pesano in silenzio le conseguenze e i vantaggi dello sbranarmi.
Di colpo vola un parola corta a voce alta e il branco si mette all’erta; un ragazzino si picchietta sul polso senza orologio, mi mostra quattro dita. Sì, sono le 16, e allora?
“ I militari vengono sempre alle 16, quando sanno che i bambini sono tutti tornati da scuola “, dice Mohamed, “ ma la settimana scorsa ne hanno portato via uno da davanti alla scuola, perciò è sempre una tombola rientrare a casa. Ora i bambini si stanno vendicando per il loro compagno scomparso; è due settimane che i soldati sparano ogni giorno, per ‘ difendersi’ dai sassolini. No, adulti non li vedrai mai esporsi pubblicamente davanti ai soldati : pensa solo se dovessero portare via il padre di una famiglia numerosa, o la madre. Non possono rischiare 20 anni di galera per ‘ movimenti politici’ . I bambini...è diverso. Certo, rischiano, ... guarda, vedi quello con l’occhio bendato e la ferita sulla tempia ? Ahmed! Vieni qui. E’ il mio fratellino. Cosa devo dirgli; di non fare ciò che fa, starsene in casa e sperare che dopo centinaia di anni qualcun altro farà cambiare le cose ? Il nostro vicino di casa ha una pallottola nella coscia. I soldati sono autorizzati a usare qualsiasi forma di proiettili e gas, se si sentono ‘ minacciati ’ dalle fionde o ... “
Non finisce la frase, perché da un nulla siamo assaliti dall’intera troupe di soldati, spuntati dalle cantine di una baracca palestinese. Non abbiamo sentito il carro armato svoltare contemporaneamente l’angolo dietro di noi, ne altri rumori rumori. Erano nascosti laddove meno ci aspettavamo che fossero - nel salotto sotterraneo di una famiglia di profughi, costretta ad aspettare in silenzio l’eruzione della troupe che si preparava a divertirsi un po’ con le granate indirizzate ai loro figli. Succede tutto molto in fretta. Sulla nostra sinistra c’è il muro dell’Apartheid, dietro di noi un carro armato, davanti a noi la cantina che continua a partorire militari che corrono. Siamo circondati. Tranne la destra, un vialetto lungo e stretto che porta alle abitazioni del campo.
I bambini sanno già dove correre.
Io no.
Sento Mohamed urlarmi “ RUN, FUCK RUN! “ , e il mio cervello, attivato dall’emergenza e lucido dal pericolo, fa sì che correndo in mezzo a loro recupero il mio telefono appoggiato sul muretto che riprende il tutto, mentre considero rapidamente che mischiandomi alla folla dei palestinesi che scappano su una stradina scoperta, è molto più probabile beccarsi qualche munizione volante. Con la coda dell’occhio registro una minuscola porta in qualche seminterrato e mi butto dentro. Istinto di sopravvivenza ? Non so. So solo che beccarsi una pallottola da sdraiata è più difficile. Appena sento uno sparo vicino, mi tappo le orecchie.
Mentre ansimo sul cemento col cuore a mille, incredula, cerco di capire cosa è successo, e quando. Come. Saranno passati pochissimi secondi, ma questi potevano cambiare numerosi destini con un solo movimento. Non mi ricordo l’ultima volta che mi tremavano così tanto le mani da non riuscire a mettere a fuoco la macchina fotografica che, strusciando per terra verso la strada, sto cercando di puntare per vedere cosa sta succedendo fuori.
“ Cretina ”, mi dice la voce del mio angelo custode.
“ Vai a cercare Mohamed “, contraddice la voce del subconscio.
Apparentemente non posso - a pochi centimetri dalla mia faccia, vedo il tallone dell’anfibio di un soldato con il mitra in mano. Ritiro subito la testa dietro all’anta. Solo allora capisco chiaramente una cosa : che se io fossi rimasta dalla parte dei militari, non avrei rischiato nulla se non qualche sassolino, e avrei potuto fotografare l’altra situazione - quella dove gli ebrei vengono ‘ aggrediti ’. Cosa che i soldati mi avrebbero permesso perché gli fa comodo. Invece mi sono schierata dall’altra parte senza pensarci un secondo, e questo risulta scomodo all’armata che si dichiara vittima da sempre. E in questo caso risulta scomodo anche a me.
Gli spari continuano, io continuo a tirare fuori la testa ogni volta che l’aria mi sembra ‘ pulita ’, ma il militare c’è ancora : direi anche che non gli è sfuggito il mio tentativo di squagliarmela.
Mi viene il dubbio che sia rimasto piazzato là proprio perché sa benissimo che sono dentro. Non capisco il senso; se vuole la mia scheda con le foto, perché non se la viene a prendere insieme a me ? Perché non mi porta in caserma ? La risposta mi è chiara : per non avere nulla che io possa usare contro di lui, in quanto ufficialmente non avrebbe tutti questi diritti di limitarmi. Ma può fare sì che io mi metta in una situazione in cui mi limito da sola, messa sotto pressione psicologica.
Mi manca il respiro ascoltando le urla e altri boati, e quasi non mi accorgo dell’astuccio argentato che vola e finisce di fianco a me. Fuma. E’ un fumo bianco. Sbatto stupidamente le ciglia per concentrarmi a leggere le scritte sopra. Ma oltre alla scritta Made in USA non faccio in tempo - un sapore acido e tagliente in gola e nelle vie respiratorie mi annunciano che qualcosa non va, e quando non riesco più a tenere gli occhi aperti per via del bruciore e delle immediate lacrime, comincio a capire che non è stato solo un fumogeno per confondermi.
Tossisco.
Non sono mai stata a contatto con gas irritanti, lacrimogeni e stordenti di cui gli israeliani dispongono a quantità industriali.
Non so se l’asma assomiglia a questo e se sì, maledico quella malattia, perché io sto dando pochi minuti di autonomia ai miei polmoni e al ragionamento lucido.
Sdraiata ancora sul cemento a terra, mi imbavaglio la bocca e il naso con la sciarpa, come ho visto fare ai ragazzini. Tento di strusciare dall’altra parte dello scantinato, verso il suo interno, boccheggio, voglio evitare che il gas concentratosi intorno a me faccia ancora più effetto. Ma non ce la faccio, un po’ perché non ci vedo, un po’ perché la testa mi gira incredibilmente. Sbatto su una porta.
Poi il nulla, solo voci e grida femminili, altre voci, mani che mi alzano e reggono sotto le braccia, il trascinamento verso una porta, quest’ultima che si chiude sbattendo, un fazzoletto imbevuto di non so che in faccia.
Quando mi riprendo, poco mi interessa se sono in paradiso o in caserma, sono grata di essere. Una donna sulla quarantina mi porge un tazza di thè alla menta. Non so chi sia, sta parlando velocemente in arabo, gesticola, punta verso la finestra, la porta, indica la mia faccia, il thè.
Mi alzo per uscire. Mi blocca e fa no con la testa. E’ comico associarla a mia mamma quando volevo andare in disco da piccola, ma non posso farne a meno. Vorrei vedere il movimento dei miei neuroni in questo preciso momento.
La minuscola stanza fredda e buia si riempie di altre persone, donne, bambini, uomini, vecchi. “ Devo uscire, devo “, blatero sconnessa, “ devo fare le foto a quei bastardi, non è possibile, io, io ... “
“ Se esci dalla nostra porta, oltre ai gas che entrano qui dentro, spareranno non solo a te ma anche alla nostra casa “, dice semplicemente una ragazza.
“ Sorry “, sussurro, “ non ero intenzionata a mettervi nei guai più di quanto non lo siate già. Mi dispiace...io...non sapevo dove nascondermi. “
Solo in quel momento mi accorgo di un fagotto sul divano. Un fagotto di plaid con una bombola trasandata e corrosa, cui tubi portano al fagotto.
“ Mia sorella. Ha 10 giorni. Due giorni fa ci hanno sparato i gas attraverso la finestra del salotto. Lei dormiva qui. Ero in bagno...il tempo di tornare...io..io pensavo fosse morta. Ha inalato troppo veleno. Ho chiamato l’ambulanza, e per fortuna ci hanno dato questa bombola ad ossigeno e altre cure. Perché vuoi uscire ? “
Come faccio a spiegarle di fronte a tanta violenza disumana, che mentre lei mi protegge, io rinuncio al suo generoso aiuto solo per cercare di dimostrare al mondo il livello di disinformazione che esiste al riguardo del conflitto in Palestina ? Che il mondo tende a vittimizzare gli ebrei per l’accaduto di anni fa, e chiude un occhio nell’assistere a riprendersi la loro ‘terra promessa’, nel frattempo popolatasi di persone che non c’entrano nulla con il vecchio conflitto e non hanno dove andare ?
“ Vuoi vederla ? Ora sta meglio, ma ti faccio vedere le foto di quando è successo. “
La bambina è rossa e gonfia, alcune pustole in faccia, sulle labbra e occhi incrostati sono ancora chiaramente visibili. Il rumore che produce respirando mi fa venire i brividi.
“ Porca di quella troia “, dico in italiano per non offendere nessun santo. Ma quale santo; non sono credente e ora più che mai so che lassù invece di Lui, c’è solo un tetto con un altro israeliano con la granata in mano.
Alla terza foto scuoto la testa e guardo altrove. Non ce la faccio. Lo sguardo mi cade sulla lastra della minuscola finestra con il buco da dove è passata l’ampolla micidiale. Ora capisco meglio la disposizione del divano e delle sedie ammassate nell’unico angolo non raggiungibile direttamente. Su una parete, un gigantesco televisore a plasma. Paradossale, considerando che una delle donne sta lavando a mano i vestiti in una bacinella. Indico lo schermo piatto.
“ Gli aiuti della comunità europea “, dice la ragazza divertita, “ ci mandano medicine, volontari all’ospedale, televisori e così via. “
Sorride triste. Quanto può valere un film in HD per qualcuno che non sa se suo fratello torna vivo da scuola, per qualcuno che non può fare due passi senza mettere in conto che tutti gli spazi sono potenzialmente esposti a un attacco ?
Passo le successive ore ad aspettare che il militare se ne vada. La ragazza mi vede impaziente e ogni 15 minuti controlla la situazione fuori : poco da fare, l’uomo aspetta ancora fuori. Quando si fa buio, decido di andarmene comunque - se non ha avuto le palle di venirmi a prelevare, non le troverà per spararmi così senza motivo, mi dico. Declino l’amorevole offerta delle donne di casa di rimanere per la notte, perché è ‘meno pericoloso per me pernottare che uscire ed espormi ai militari. ‘
Ne sanno più di me ma io, riguardando la bomboletta di ossigeno e la finestra bucata dal proiettile, ho i miei dubbi. Vengo rassicurata che le altre stanze sono sprovviste di finestre. Ma non voglio abusare della loro disponibilità e occupare un posto, già fin troppo ridotto per tutte quelle persone. Ringrazio di cuore, con l’accenno di un liquido salato nel mio occhio sinistro, e lascio il cortile con un misto di impotenza, rabbia, ingiustizia e calore umano ritrovato dove meno me l’aspettavo. Raccolgo un pezzo di granata e gli astucci dei gas con il codice del prodotto utilizzato, e non posso non notare le scritte in ebraico e tanto di MADE IN USA. Quegli USA che mandano prima la munizione all’Israele per tenersi buona l’armata più potente al mondo come alleato, e poi mandano la penicillina per curare le ferite causate dalle proprie munizione alla Palestina.
Una volta volevo capire il mondo; ora no, perché se fossi a conoscenza dei veri motivi di una guerra, starei peggio.
Prima di espormi all’aria sul viale scoperto tiro fuori la testa. Il militare c’è sempre, posizionato in attesa, ma è un altro. Prendo un respiro profondo, nascondo la Nikon e alzo le mani in alto contemporaneamente a lui che le alza per sollevare il mitra. Esco lentamente dal corridoio. E’ più forte di me, non riesco a non guardarlo in cagnesco, e se non avessi la bocca completamente asciutta, mi azzarderei a uno sputo poco elegante.
“ E’ tutto a posto “, mi dice.
E’ tutto a posto.
No, scusa; non ho capito.
Mi fermo. Poi ci ripenso e mi incammino verso di lui.
“ Sorry ? “
“ E’ tutto a posto “, ripete.
Cazzo, l’ha detto veramente. Incredibile.
“ Ma mi prendi per il culo ?! “
Non risponde.
“ Come cazzo osi dire che va tutto bene se ogni giorno te ne vai in giro a sparare ai bambini, se i tuoi colleghi li ho visti ridere mentre miravano, se avete soldatesse a colpirli, se sei attrezzato peggio di un kamikaze e con un movimento puoi estirpare l’intera generazione ? Come fai a dire che è tutto a posto ? Mi dici COME CAZZO FAI ? “
La sua espressione si ammorbidisce e per un attimo penso faccia parte di quegli israeliani che sono costretti a prestare il servizio militare in determinate zone, nonostante non sposino assolutamente la causa.
“ Hai ragione “, dice a voce bassa, guardandosi intorno imbarazzato.
Oh!, è già qualcosa.
“ E tutti noi speriamo che le cose cambino “, aggiunge.
Sembra sincero. Ma a me non basta, ai profughi non basta.
“ Allora comincia a cambiare le cose da te stesso “, gli dico, ormai a mani abbassate, girandomi e andando via, noncurante di ciò che possa avvenire alle mie spalle.
Naturalmente ho perso tutti i collegamenti per rientrare in Israele. Mi incammino per combattere il freddo e dopo qualche chilometro attraverso l’orribile gabbia del check point. Non ci sono parole per descrivere la fredda noncuranza dello staff israeliano che mi fa spogliare dalla testa ai piedi. Ho nascosto i pezzi di granata e il resto delle munizioni al muro; so già che per il resto della mia programmata permanenza in Israele, non ci passerò nemmeno un giorno - tornerò qui. In primis per fare una grande spesa e ridare almeno parzialmente l’affetto che la famiglia palestinese mi ha dimostrato nell’accogliermi, rischiando per me.
Arrivata di notte a casa, scarico le immagini che sono riuscita a salvare dalla cancellazione impostami dall’army. Constato sorpresa che su 900 scatti, zoomando, quasi su tutti c’è il militare a cui ho detto di cambiare.
Su quasi ogni scatto guarda dritto nel mio obiettivo, anche quando consideravo la mia postazione sicura, anonima, invisibile. Quindi sapeva che li riprendevo, mi vedeva. Eppure non mi ha mai puntata, mandata via o ricorsa come gli altri. Durante le sparatorie, anche nei video fatti con il telefono rimasto attaccato agli alberi e ai muri che continuava a registrare, era l’unico a non fare fuoco, a non alzare l’arma. Nemmeno quando mi sono schierata con la propria fionda con i palestinesi a colpire i militari. In un’altra sequenza di immagini si toglie addirittura il casco che lo protegge, il giubbotto antiproiettile, rimane scoperto con armi a terra, e osserva i suoi colleghi all’attacco. Che fosse un inizio ?
Decido che il giorno dopo gli avrei parlato. Non cambierò mai il mondo, ma cominciando da una persona, sarebbe già un passo avanti.
Sono una dormigliona cronica, eppure non riesco a chiudere occhio. Ripenso all’accaduto, e mi rendo conto dell’abissale differenza tra guardare il Tg, compiangere le vittime, pensare a quanto è brutto il mondo, cambiare il canale e tra il trovarsi là. La confusione mi stampa in testa punti interrogativi, esclamativi, bestemmie, idee, ingiustizia e la onnipresente impotenza. E’ solo ora, qui nel letto al sicuro, che apprezzo il ‘ sicuro ’. E’ solo ora che mi vengono i brividi a sbarro gli occhi, ascoltando il mio migliore amico al telefono dirmi serio : “ TU. SEI. PAZZA. Non ti azzardare a tornarci, già ti è andata di culo. Ma ti rendi conto dove sei finita ? Andrè, hanno provato a spararti. “
“ Ma il mondo deve sapere che ... “
“ Il mondo non è pronto per ascoltare e poi non devi esser per forza TU a dirglielo ! Sempre se la prossima volta non mirino meglio e tu ce la faccia a dirglielo ! “
Ha ragione. Per quello metto giù e provo a dormire, scattando ogni volta che sento un rumore. Come diavolo fanno loro al campo ? E’ possibile abituarsi alla paura ? Arrendersi ? Farla diventare una componente della propria esistenza, come fosse una condizione normale ?
Naturalmente alle 8 sono già sull’autobus per la Palestina, con un grosso pacco per i bambini. Questa volta la finta tranquillità che regna nel campo è quasi inquietante; non me la spiego. Giro le stradine in cerca di Mohamed, quando mi si avvicina un gruppo di bambini che non conosco. Provano a strapparmi di dosso i miei averi. La loro verve violenta mi fa quasi più paura delle granate. Sono circondata. Mentalmente faccio il conto delle cose peggiori che mi possano succedere. Paradossalmente solo l’arrivo dei militari potrebbe risolvere la mia situazione. Oppure ...
Ed è qua che arriva la banda dei bambini che ieri stavano per lapidarmi viva. Volano parole, qualche calcio e schiaffo, si crea un vero e proprio muro di protezione davanti a me, finche la banda concorrente non sparisce.
Sorrido.
“ Sokran habibi “, dico a tutti.
“ Di niente, Zebra. “
Zebra ?
“ Ieri io vedere tu lanciare pietre militari. Pantalone bianco nero strisce. Zebra !”, dice e mi regala la promessa fionda. Sorrido. Ora so che di aver passato l’esame.
Ridiamo parlando prevalentemente a gesti, rullo sigarette per tutti nonostante siano piccoli - in un mondo di proiettili e guerra, l’ultima cosa utile è predicare su quanto il fumo faccia male. Fanno molto più male le granate.
Mi dicono che mi fanno vedere un segreto. Lì per lì non mi fido tanto; potrebbero farmi sparire durante qualche raptus, ma li seguo. Mi portano al muro, il cosiddetto ‘ sur ’ in arabo, e mi fanno vedere un minuscolo buco che dopo giorni e giorni di lavorazione con oggetti appuntiti, sono riusciti a creare tra un a lastra di cemento e l’altra. Da quel centimetro quadrato non si vede praticamente nulla di Israele, ma loro ci vedono tutto : una fuga, un mondo, una libertà, una terra, speranza, futuro, una soluzione.
In qualche modo riesco a esprimere loro il mio pensiero : loro hanno le case e la libertà, ma voi avete il cuore.
Giochiamo a cercare proiettili e cose utili sull’immenso sterrato coperto di spazzatura, chiedendoci dove sia finito un altro ragazzino che i militari hanno rapito proprio ieri mentre mi nascondevo in cantina. Non lo sa nemmeno sua madre, che a un certo punto, piangendo, sbatte disperata i pugni sul cancello della caserma, urlando. Lo sanno però quelli che a un certo punto lo aprono, la passano noncuranti, salgono sul carro armato, e si avvicinano a noi bambini della stazione AIDA Camp : e già, sono le 16, il video gioco ricomincia.
L’aria pesante che avevo percepito si fa ancora più densa : questa notte è stato ucciso un militare israeliano. Gli invisibili adulti palestinesi, alla disperata ricerca del ragazzino sparito e nessun segno dalla parte degli israeliani, hanno reagito a modo loro : aspettando sul tetto con un enorme sasso da lasciare cadere nel momento opportuno. Di fianco alla cantina dove mi nascondevo, una macchia di sangue e una pietra spezzata in due.
Spezzata esattamente come la vita di quel militare a cui ho detto che per cambiare le cose, deve cominciare da se stesso.