Il dismesso mezzo di trasporto pubblico vietnamita mi fa tornare in mente la frase " Non è la destinazione ma il viaggio che conta. " La mia meta è Laos, il paese con più mine inesplose al mondo, e mi chiedo se questo autobus ce la farà a portarmi più lontano del parcheggio.
Quando la sveglia delle 4.30 suona, maledico chi l’ha inventata - se è vero che Dio ha inventato il sonno, deve esser stato Satana a occuparsi dell’aggeggio che fa beep beep proprio quando trovo la posizione giusta nonostante il sudicio e maleodorante cuscino che l’ostello mi offre. Sul momento non mi è ben chiaro dove io mi trovi; viaggiando da tre mesi attraverso l’Asia, e il destino di ogni vagabondo solitario che si rispetti è quello di cambiare più città che calzini. Vorrei vedere i miei spostamenti monitorati - credo uscirebbe un gran bel tracciato stile elettrocardiogramma, con dei notevoli picchi regolari di adrenalina pura. La mattina, appena sveglia, metto direttamente lo zaino in spalla : non so mai dove andrò, come, ne se tornerò. Mi sento una po' come la mia sveglia da viaggio - vado sempre avanti, usando i miei piedi come le lancette che si sorpassano a vicenda, finche una volta al giorno qualcosa non mi dia lo stop.
La tristissima brandina fatta di paglia che questa notte mi ha inghiottito in un solco, appartiene a una minuscola città del Viet Nam : Dien Bien Phu. Al nord-ovest del paese, al confine con il Laos, è entrata nella storia per la sua famosa battaglia culminante della guerra d’Indocina, terminata con la resa delle forze francesi.
Per attraversare il confine, ho preferito il viaggio via terra. Per un semplice motivo : sono estremamente fortunata ad avere tanto tempo a disposizione, e sorvolare un paese fa sempre perdere la vera essenza del viaggio, le sue avventure, la vita quotidiana del popolo. Per evitare il volo che mi priverebbe di tante situazioni, ho deciso di prendere un autobus pubblico che mi lascerà sul territorio laotiano.
Benedico la barrette energetiche di Decathlon, un’ottima alternativa alle zuppe all’aglio mattutine vietnamite, e corro verso il parcheggio degli autobus per aggiudicarmi il sedile migliore. Ovvero, per aggiudicarmi un sedile.
Questi paesini poco centrali sono veramente strani : di notte fa veramente fresco, finche a una certa ora sembra si aprano di colpo le tende di madre natura e tutto ciò che mi circonda e che ignoravo, prende forma sotto un sole accecante che diventa ardente in pochissimo tempo. Oltre all'umidità che sale dalle montagne per disperdersi nel cielo, ora vedo chiaramente anche le cose che più mi hanno disturbata in Viet Nam, in due mesi : le onnipresenti siringhe. Purtroppo qualsiasi attività possibile nei villaggi piccoli scarseggia molto e l'eroina costa meno di un maestoso pasto. Il risultato : non ho mai potuto mettere le ciabatte per paura di pungermi.
Tutto questo, a un'ora dettata dall'inspiegabile ritmo della natura, sparisce in fretta così come è arrivato - il buio tira le sue tende in pochissimi minuti, fino ad un'altra alba.
Quando identifico il mezzo Viet Nam - Laos, dubito all'istante che possa portarmi più lontano del parcheggio. E’ senza luci, corroso, senza targhe, strani fili scoperti gli escono da tutte i buchi ( e ne ha parecchi ), la porta d’entrata e uscita non c’è proprio, e le lastre di vetro sui finestrini sono un optional. Sulla lista dei passeggeri siamo ufficialmente in tre, per una trentina di sedili disponibili. Si dovrebbe partire alle 5. Per un attimo mi illudo di poter recuperare il sonno ma conoscendo la praticità degli asiatici, so che non sprecheranno la benzina se siamo così pochi. E allora si aspetta.
Mezz’ora, un’ora, un’ora e mezza. Alle sette mi arrendo e opto per la zuppa all’aglio. Alle otto, siamo in 45. Il conducente ci sta assegnando i posti in base alla destinazione - chi scende all’ultima fermata, deve salire in fondo.
Mi piazzano in fondo.
Una volta i vietnamiti e laotiani incastrati e ammassati uno sull’altro e due su di me, nell’inesistente spazio libero rimasto il conducente comincia a sistemare la merce da trasportare. Mi spiega qualcosa in vietnamita, gesticola, annuisce, mi alza le gambe, incastra sotto di me sacchi di riso, verdure, farina, e quando vede che le ginocchia mi arrivano ormai in bocca - per fortuna la mia - , mi piazza soddisfatto in braccio una gabbia di bambù contenente dei galli. Uno a uno, ci sommerge di altri viveri, e tutto sommato quando guardo il vecchietto di fianco a me, so che mi è andata bene : un contenitore con i pesci morti e un sacchetto puzzolente in testa. Il corridoio viene letteralmente murato con altra merce e, apriti cielo, con una capra e un motorino sopra. Per fortuna il finestrino dal mio lato è rotto.
Mi chiedo come sia possibile che la durata prevista del viaggio è di 8 ore, visto che dobbiamo attraversare solo 120 km. Trovo la risposta dopo i primi 500 metri : il bus si ferma e, incredibilmente, carica altri pacchi e altre persone. Dopo la decima fermata in nemmeno un’ora di ‘ viaggio ’, il mezzo non ha più nessuna somiglianza con un autobus : è solo una specie di open space sommersa da ogni sorta di cibo, mezzo, animale e etnia. Chi con i cappellini tribali in testa che suonano a ogni frenata, chi con dei pulcini in grembo.
Una parte del corpo non identificabile di un passeggero mi finisce in faccia per la durata del viaggio, mentre il resto di lui rimane appeso fuori dal finestrino. A ogni curva, la metà delle valigie in pila crolla regolarmente in testa a qualcuno, e l’autobus risuona di risate gioiose.
Amo questo lato degli asiatici - è così, non possiamo cambiare le cose, allora ridiamoci sopra.
Recuperare il sonno è impensabile, ma a un certo punto, dopo litri di acqua visto il caldo disumano, devo andare in bagno. Il fatto è che scavalcare tutti gli ostacoli che ho davanti, renderebbe l’attività impossibile.
Faccio capire discretamente alla vicina di capra il mio problema, la quale appena afferra il concetto, scoppia a ridere e urla qualcosa a squarciagola. Penso sia un lungo ' Fermati ' all'autista. Uno a uno, si girano tutti i passeggeri, mi fissano e ridono all'unisono con molari mancanti a vista. Messaggio ricevuto : che sciocca, la faccia bianca pensa di riuscire a scendere per urinare !
Con un’impressionante esercizio di mano a mano mi arriva un bicchiere e il vecchietto più sopra che di fianco a me mi fa capire serio che si coprirà gli occhi mentre eseguirò i miei bisogni. Indubbiamente questo completerebbe il quadro della situazione.
Con un numero di contorsionismo degno di un clown d’argento, piazzo i galli sotto di me e salto fuori dal finestrino. L’autobus va a una velocità talmente ridotta che secondo me a breve ci sorpasseranno le lumache e le tartarughe, insultandoci. Trovo il primo cespuglio, mi libero, e a passo rilassato raggiungo il mezzo per arrampicarmi al finestrino e riguadagnare la mia posizione.
35km e quindi tre ore più tardi, arriviamo alla dogana vietnamita. Ci fanno scendere e ogni singolo foglio con milioni di dati viene riempito a mano. Una volta terminata la burocrazia, temo che non sarà mai più possibile trovare lo stesso incastro di prima e chiedo se posso viaggiare sul tetto, anche esso pieno di cesti e cianfrusaglie. Mi dicono che non c’è spazio, sopra. Dentro invece sì...
Stessa procedura poco dopo alla dogana laotiana, dove mi portano in un ufficio per ‘controllare i documenti. ‘ Il doganiere scansa la gallina sulla scrivania che mangia dalla sua ciotola, e m'osserva muto con un sorriso beato. Ricambio. Lui chiama i colleghi. Sorridono anche loro. Nessuno calcola minimamente il mio passaporto e le mie domande. E’ solo allora che noto che non mi stanno guardando in faccia, ma leggermente più giù.
Sono ben i primi a pensare che io abbia un decoltè degno di esser osservato.
Non mi è possibile ripescare dal mio zaino sotterrato di fauna e flora le foto per il visto, ma qui non è un problema : per due dollari, il doganiere me le scatta con il cellulare e dice che siamo a posto.
Ah.
Ripartendo, per puro sfinimento e caldo, mi addormento nonostante le foglie degli alberi che ogni tot mi schiaffeggiano la faccia dal finestrino. Incredibile; in Europa mi sento disturbata da qualsiasi rumore, mentre qua mi adeguo persino ai galli usati come cuscino.
Quando mi sveglio, sull’autobus non c’è nessuno e io sono sdraiata su ben due sedili. Eppure sento il rumore del motore e percepisco il movimento del mezzo. Assonnata, dò un‘occhiata fuori dal finestrino.
L’autobus sta per navigare in mezzo a un fiume larghissimo. A un certo punto, l’acqua arriva poco sotto il finestrino, allora me ne approfitto per sciacquarmi gli occhi - magari ci vedo male. E' marrone e fredda. No, ci vedo benissimo, e vedo anche molto bene spuntare la testolina di un ragazzino che, con tutta la nonchalance del mondo, mi regala un Hello, continuando a nuotare affiancando il nostro autobus. Sbatto le ciglia incredula. Intorno, solo la giungla, montagne, buffali a pascolo, palme. Se non fosse per le persone che in lontananza attraversano a piedi un ponte, penserei di esser passata a una vita migliore.
Incredibile ma vero, a volte è necessario attraversare questi fiumi allargatisi dalle frequenti alluvioni. Ora capisco perché i mezzi non hanno le luci e perché viaggiano solo di giorno. Sono colpita dalla carineria dei passeggeri che son scesi per alleggerire il bus, lasciandomi dormire.
Attraversiamo minuscoli villaggi con diverse tribù che mi fissano più di quanto non lo faccia io con loro. Ma la civiltà diventa sempre più rara, ci stiamo addentrando sempre di più verso il nulla, sempre di più in salita, e l’asfalto non c’è da un pezzo. Solo strade fangose, sterrate, serpentine con curve a gomito, e spesso a 10 centimetri dalla nostra ruota, il mondo finisce nei burroni abissali.
A un certo punto, penso di esser tornata a vedere male : giù in profondità, in mezzo al niente di un verde dominante, due carcasse arrugginite di qualche mezzo di trasporto. “ Non c’è due senza tre “, mi viene in mente e picchietto insistentemente sulla spalla del vecchietto di fianco a me. Si piega, guarda giù anche lui, annuisce e ride. Poi, pensando che io non abbia capito l’accaduto, indica il nostro bus e mima un ribaltamento verso giù. E ride, aggiungendo una fila di “ Ok? Ooookey! Okey. “
Invece di cadere, ci incastriamo nel fango. Pesantemente. In salita. Nessuno fa domande, tutti scendono senza dire una parola, si muniscono di corde distribuite dal conducente. Donne in cima al mezzo a tirarle, uomini sotto a spingere e bloccare le ruote coi sassi. Mi aggrego al gruppo di sotto.
Si crea un lavoro di team molto armonioso e per l’ennesima volta penso che il nostro individualismo occidentale non ha che da imparare dall’esemplare coesistenza del ‘ terzo mondo ’. Se succedesse una cosa del genere in Europa, ci sentiremmo tutti in diritto di chiedere il rimborso. Qui sentiamo tutti il dovere di aiutarci.
Alle 16 ci imbattiamo in un’altra frana che ci costa un vero sforzo, e un altro fiume da attraversare. Ormai l’acqua è entrata nell’autobus e siamo tutti zeppi. Ma sorridiamo, passandoci a turno una sigaretta.
Laddove meno ti aspetti forme di vita, nel cuore della giungla, appare una sbarra - ovvero una canna di bambù sorretta da due tribali - che ci informano seri che ‘ se non paghiamo non ci fanno passare. ’ Sorrido per la fantasiosa minaccia e il tentativo di sopravvivenza economica e pago un dollaro all’uomo nudo e muscoloso, con solo uno straccio sull’inguine. Forse è troppo, perché butta la sbarra-bambù entusiasta giù dal burrone e ci dà il via per il nostro punto d’arrivo : Muong Khoa, distante esattamente 20 metri dopo la curva saldata.
Un’altra volta mi ricordo perché non programmare mai il ‘ dopo ‘ di un viaggio compiuto, specialmente in Asia : oltre alla bellezza dell’imprevisto in cui gli asiatici sono imbattibili, c’è sempre il fattore degli orari inesistenti. Pensavo di arrivare per le 13 e continuare con una barca lungo il fiume verso Nong Khiew, cosa ormai infattibile che mi costringe a pernottare in questo paesino minuscolo e allagato, praticamente privo di abitazioni. Purtroppo nessuno accetta i dollari per l’impossibilità di raggiungere facilmente la civiltà e cambiarli, e alla fine scambio qualche mio bene personale per una stanza in condivisione.
All’alba c’è un timido sole e, fermando le barchette per un passaggio di 5 ore, gli sorrido : so che anche se verrà a breve sostituito dal monsone, di nascosto mi accompagnerà sul fiume rosso che divide la giungla e la foresta pluviale in due parti uguali identiche, estremamente selvagge e incontaminate, verso una nuova avventura chiamata Laos.
( To be continued )