Il fiume Nam U del minuscolo villaggio Muong Khoa, al nord del Laos, funge anche da mezzo di trasporto più pittoresco che si possa scegliere e, paradossalmente, il battello rimane il più comodo e rapido mezzo rispetto alle solite macchine preistoriche che faticano parecchio sul terreno fangoso. Da non sottovalutare i monsoni che rendono le serpentine inutilizzabili.
Opto quindi per per la via liquida nonostante non sia proprio economica. L’unico svantaggio del trovarsi nei posti privi di turismo è non avere a disposizione nessuno a cui poter proporre di dimezzare il viaggio. Mi vedo costretta a saldare il prezzo della tanto amata solitudine - 80 dollari. Che è ben 8 volte il mio budget giornaliero previsto.
Mi immergo nel fiume rosso fino alla vita per raggiungere il battello dove caricare lo zaino che per l’occasione porto sulla testa, più la bustina con il riso per il viaggio. Mentre salgo, un uomo mi chiede se lo ospiterei sul mezzo. So come funziona in Asia: appena uno salda la barca, con un incredibile passaggio di ‘spargi la voce‘ si presentano al molo persone a cui serve spostarsi, persone che però non hanno la possibilità economica. Naturalmente non esito un attimo e lo aiuto con i bagagli - dei bauletti in plastica, una specie di minifrigo.
“Cosa sono?“, gli chiedo, ma non parla inglese e sorride solo. Indica un’etichetta con scritto ‘Vaccini’, imita una zanzara, si punge, sbarra gli occhi, si sdraia e mima la fronte bollente.
“Malaria, febbre Dengue, tetano, epatite etc?“, dico sorridendo per la sua prestazione.
Per tutta risposta, punta con il dito gli alberi nella giungla, mentre la barca comincia a seguire il flusso dell’acqua. So che le zanzare sono amanti dell’acqua dolce e di zone rurali, e si lasciano dissuadere solo dalle zone situate in alto, ma fino a un tot di metri d’altezza la malaria è un serio problema in questo continente. Il nuovo ceppo di zanzara malarica ha persino sviluppato l’immunità a quasi tutti i farmaci antimalarici, per non parlare dell’assistenza sanitaria inesistente, viste le tantissime tribù inaccessibili, difficili da individuare e raggiungere.
La foresta tropicale contrasta con il suo verde la terra e l’acqua rosse del fiume, e nonostante qui la natura usi solo due colori, mi sembra un quadro a cui non manca una sola sfumatura. Ci teniamo sul bordo del fiume, credo per la corrente troppo forte che ci trascinerebbe via. Invece no - ci teniamo laterali perché ogni quarto d’ora ci fermiamo.
Le tribù.
Appena le loro orecchie sentono un accenno di rumore non appartenente alla loro vita, scendono al fiume. Ho sempre pensato che dove c’è acqua, c’è vita - ma mai l’avrei immaginata così copiosa proprio qui. S’avvicinano lenti, incuriositi, diffidenti, una palpabile aspettativa si legge sui loro visi lisci dai tratti particolarissimi. Spuntano dagli alberi, da dietro i tronchi, da ovunque: poco fa avrei giurato che questa giungla è deserta e incontaminata. Bambini, donne, tutti scalzi, con solo pezzi di drappi tipicamente ricamati, con colori e motivi che rappresentano ogni singola tribù. Le loro parole sono dei suoni corti, diversi nelle intonazioni, eppure sono convinta che con due vocali si dicano più di quanto non lo facciamo noi con le 140 lettere di Twitter.
Assisto a una vera e propria dimostrazione di coesistenza, unione e appartenenza al gruppo. Uno per tutti, tutti per uno. Mi viene da paragonarli agli aborigeni, quella felice razza che tuttora vive basandosi sull’istinto, quello che in Occidente è stato eliminato per esser rimpiazzato dalla convenienza e dal nostro esasperato individualismo.
Sono di un indescrivibile fascino, con le trecce sulla pelle perfetta, denti bianchi a forma di sorriso, braccia snelle che tirano fuori le retine dal fiume, in cerca di pietre preziose.
Mi sento ubriaca di tanta emozione inaspettata e scendo insieme al mio compagno con i vaccini. I bambini indietreggiano. Mi spiano curiosi, ma solo da lontano. Ormai mi sono abituata, ma all’inizio non capivo che il motivo era la mia pelle bianca, le mie lentiggini, i capelli chiari e soprattutto gli occhi blu. Per chi non ha visto colori del genere su un essere umano almeno in tv o sui giornali, io donna bianca equivalgo a una specie di ‘uomo nero’ al contrario. Continuo a sorridere e mi siedo per terra - ho notato che con i bambini funziona come con i lupi, se raggiungi la loro altezza, non rappresenti una tale minaccia. Mentre il mio compagno smercia i vaccini e sottopone alcune persone a un immediato trattamento, la curiosità vince sulla diffidenza ed ecco che i bambini mi avvicinano per toccarmi, tirarmi i capelli, prima sorpresi, poi ridendo. Probabilmente l’unico oggetto simile ai miei colori è la loro scopa nella capanna, perciò li capisco.
Per il resto del viaggio ci fermiamo in tutti i villaggi, e nonostante ne abbia visti tanti ormai, ogni volta rimango ammirata. Qui il tempo si è fermato seriamente - se i Maya ci avessero preso con la fine del mondo, qui non sarebbe successo nulla, visto che sono anni indietro. Tutto il necessario è costruito a mano, dalle abitazione ai vestiti, ceste, barchette, zattere, bicchieri di bambù, ciotole di cocco, giocatoli fatti con bottiglie di plastica. Una creatività e praticità nel riciclare invidiabili, e noi in Europa non riusciamo nemmeno a differenziare questi materiali, figuriamoci a reinventarli.
Non so se fisso più io loro o loro me, ma vorrei essere scaricata qui per sempre, a imparare a pulire bestie nel fiume e cucinarle sul fuoco, riconoscere piante velenose da quelle usate in medicina, percepire la pioggia come acqua potabile e non come un disturbo.
La durata del viaggio naturalmente raddoppia, e quando alle 17 scendo nel posto previsto, ovvero Muang Noi, scopro che il barcaiolo si è scordato di avvisarmi di scendere ore fa e che mi trovo in un posto completamente diverso e sconosciuto persino alla mappa.
Nulla succede a caso; spero solo non abbia anche la faccia tosta di chiedermi dei soldi per la benzina in più.
Il villaggio cui nome ignoro è molto particolare. Silenzioso, lento, nessuno ha fretta, costruito da poche case sulla riva del fiume, baciate dal sole. Il silenzio fa quasi rumore e dall’assenza delle scritte in inglese e frecce indicative presumo io non sia in un posto proprio turistico.
Un signore si offre volontario per trovarmi una capanna.
“Ne abbiamo costruite un po’ sperando che potessimo attirare i viaggiatori ma purtroppo qui non c’è nulla e non hanno motivo di venire. Infatti sono tutte vuote da sempre. Ne vuoi scegliere una?“
"Qui non c'è nulla" mi entusiasma parecchio - io il 'qualcosa' non lo voglio trovare, ma cercare. A parte il dubbio che mi viene - e cioè che il barcaiolo non mi abbia lasciata qui casualmente ma prende un percentuale per arricchire il villaggio - cerco di ricordarmi al volo i punti base nella scelta di una capanna.
Viaggiando, uno impara che: non bisogna mai scegliere una capanna dove batte il sole. Il bambù non respira, d’estate tiene caldo e d’inverno freddo. Assicurarsi che nelle vicinanze non facciano dei lavori - gli asiatici costruiscono sempre qualcosa, per necessità, per passione, per noia. E lavorano solo di notte, viste le temperature. Se possibile, assicurarsi anche dell’assenza dei neonati, del bestiame o, nei posti più frequentati, di un gruppo di giovani viaggiatori insonni.
Acqua, bagno, lastre di vetro nella finestra o il ventilatore, è un optional lussuoso da non considerare.
Trovo una sistemazione a 5 dollari - una signora mi offre la sua capanna con l’amaca sul fiume, e accetta i miei euro a un cambio irragionevole ma, colpa mia, dovevo pensarci prima a cambiare abbastanza kip laotiani. Mi offre una zuppa allo zenzero e un bicchiere di lao-lao, un distillato micidiale fatto in casa. Non ho dubbi che la sua gradazione possa battere quella della benzina, perciò quando nel letto trovo un ragno di dieci centimetri, penso che le dimensioni che vedo siano dovute all’alcool. Di ragni grossi ne ho visti, ma questo non ha dieci centimetri di zampe, ma proprio di corpo. Infatti si sta divorando uno scarafaggio cui dimensioni potrebbero tranquillamente intimidire il mio ratto da laboratorio. Metto la mia torcia da testa, visto l’unico neon fulminato e i generatori ormai spenti per la notte, e osservo ammirata il ciclo della natura, ovvero la legge del ‘il più forte fotte l’altro.’ Ho visto tanti turisti viaggiare esclusivamente con il Bagon, e spruzzarlo a dismisura su tutto ciò che si muoveva. Trovo terribile questa morte chimica riservata a una fauna che nella giungla è di casa; quelli ‘fuori luogo’ siamo al massimo noi. Per non parlare del fatto che uccidere un animale di queste dimensioni equivale a uccidere un gatto. Lo lascio digerire, lo infilo nel mio pentolino da viaggio, lo porto sull’albero fuori, e così via con tutti i suoi simili nel mio letto.
L’aria sa di foresta, il buio è pesto, la pioggia notturna così forte da - paradossalmente - essere rassicurante, le cicale dalla vita cortissima danno il via a un'orchestra.
Ormai il mio corpo, dopo mesi di viaggio, è abituato a non riposare, bensì a collassare per riguadagnare le forze necessarie per riprendere vita insieme al sole.
Il paesino di giorno è ancora più strano: le bancarelle per i locali contengono chiavette Usb, pur non avendo quasi l’elettricità ne PC. Mi sembra un ottimo segno tecnologico e chiedo del bancomat a un vecchietto con una sporca busta di plastica in mano e cartello di carta con scritto POSTA davanti ai piedi, seduto per terra.
“ATM ? Bancomat? C’è. Dritto dritto e poi a destra.“
Guardo il dritto dritto che è solo un’altro pezzo di giungla.
“Dritto?“, chiedo di nuovo.
“Sì, 5 ore dritto, e poi sulla destra.“
Alla fine mi cambia gli ultimi 90 euro dalla busta di plastica e io continuo a esplorare il paesino.
Le case sono le solite - un unico spazio a piano terra, di bambù, con salotti rigorosamente all’aperto e a vista e persone ammassate una sull’altra, a guardare annoiate ciò che le circonda. Alcuni dormono, altri respirano e basta. All’inizio trovavo incredibile che i pochi fortunati che hanno ‘fatto soldi’, invece di costruirsi una stanza o un bagno, hanno investito nel satellite. Poi ho capito il ragionamento: a cosa ci serve un divano letto in casa, se con un satellite possiamo accedere a quelle vite lontane e irraggiungibili come Baywatch o Mickey Mouse ?
Altrettanto mi chiedo come facciano a ‘consumare’: in uno spazio convivono gli sposi, le loro famiglie, cugini, parenti, genitori. Eppure le strade sono piene di marmocchi.
Compro il necessario, ovvero le penne - scrivendo il diario assiduamente, ne faccio fuori una a settimana - il detersivo per il bucato da fare nel mio zaino impermeabile Vacuum Bag, e una zip per trasformare la coperta rubata sull’aereo in una giacca. E’ eccitante sapere che qui, lo scopo della mia giornata diventa un acquisto o un evento ‘insignificante’. In Europa facciamo mille cose di corsa, in uno stato simile allo stand by o al pilota automatico. Qui, non avendo altro da fare, una faccenda come quella di trovare un dentifricio, la prendo al cuore al punto da girare vari baracchini, paragonare i prezzi, trattare.
Mi informo per i costi verso Luang Prabang, la mia prossima meta. In auto 6 dollari, in barca 12, nel cofano aperto di una macchina 3 dollari. 5 ore di strada. Ora che ci ripenso, forse il famoso bancomat che il vecchietto mi indicava, è quello di Luang Prabang.
Mi preparo per la partenza, non sapendo ancora in che paesino sono. Potrei chiederlo, ma non mi va - è così bello non sapere, solo esserci e basta. Lavo le due magliette e le tre paia di calzini che possiedo, speranzosa che possano asciugarsi durante il viaggio all’aperto. Ormai sono bucati, ma hanno viaggiato più di un essere umano medio, e li curo come se fossero d’oro.
La ‘biglietteria’ della stazione è una baracca di legno priva di ogni funzione e strumento, appoggiata sullo sterrato. Sulla panchina di legno al suo interno, dorme un uomo con l’uniforme. Di fianco a lui, una donna ansimante con gli occhi girati e un impacco sulla fronte. Ogni tanto riprende i sensi e agita la mano con un sacchetto di plastica attaccato a un bastone, per spostare le mosche dal banco con qualcosa di nero e identificabile sopra. Mi avvicino.
Pezzi di orecchie, code, lingue, zampe a altre parti di natura animalesca in vendita, fanno un odore dolciastro. Continua ad alterare lo sventolamento al bagnare il suo impacco in un secchio di acqua sporca per terra. Il secchio da cui bevono i cani, il secchio in cui la gente si sciacqua la bocca e lava le mani prima di addentare un pezzo di orecchio.
Le nostre malattie europee quali l’ossessione maniacale per l’igiene, ce le creiamo da soli. Qui nessuno perde il tempo a disinfettarsi di continuo, e infatti hanno un livello di anticorpi spaventoso. Ispirata da questo pensiero, sposto il cane che beve nel secchio e mi lavo la faccia prima che qualcuno ci si faccia il bidet.
Una madre in attesa del mezzo come me, stringe al petto sua figlia di una bellezza aliena. Sdraiate per terra all’ombra, entrambe molto trasandate e sofferenti, con occhioni grandi e vissuti, una già sdentata e l’altra ancora sdentata, coperte di stracci annodati qua e là, scalze. Noto che mentre un piede della bimba è quasi pulito, l’altro è nero come l’asfalto. Credo che zoppichi, sennò i piedi bicolori rimarranno un mistero per sempre.
Compro loro un’acqua e del cibo. La madre, commossa, vuole ricambiare e dimostrare la sua gratitudine strusciando fino alla sedia da sotto la quale tira fuori una busta di plastica. La snoda e, apriti cielo, tira fuori un pulcino minuscolo. Me lo porge.
I Green Peace vedrebbero in questo gesto una violenza. Io fatico a non piangere, perché ci vedo solo tanto cuore, umanità, e sopravvivenza. Quel pulcino è probabilmente l’equivalente di tre pranzi, è un investimento, una garanzia, un futuro. Eppure me lo offre, non avendo nulla altro. Sorrido per non piangere, lo accarezzo, scuoto la testa, e declino il dono con un inchino a mani unite, scappando prima che l’emozione mi assalga - se non piangono loro, io ne ho veramente poco diritto.
Dopo due ore di attesa, il pick up non arriva. Sveglio allora l’impiegato sulla panchina.
“Sorry, il conducente arriva ancora oggi? “
Si strofina gli occhi, si appoggia su un gomito, scatarra, si accende una sigaretta, e con una serie di Okey, okay infastiditi, chiude la baracca con un cartone di traverso, sale su una macchina e mi fa il segno di saltare dietro.
Spero una cosa sola - di arrivare a Luang Prabang integra, per poter continuare il racconto di un viaggio che non riesce ad esser banale nemmeno nella sua quotidianità.