Dopo aver visto il film 'Un treno per Darjeeling ', prendo i miei otto chili di zaino e volo verso l'India. Sorpresa delle sorprese, non esiste un treno per per questa città. In cambio, esiste la città, mai mostrata nel film : un paese pieno di serpentine, incensi, freddo, umidità, tè appena raccolto, nebbia, canti nei monasteri, buio, pace e serenità.
Mentre mi preparo a scendere nel cuore di Darjeeling, noto il suo famoso trenino, il cosiddetto Toy-Train : 3-4 carrozze in miniatura, colorate, si muovono più lente del passo umano, su un unico binario che sembra un filo interdentale teso. Se la mia jeep ci ha messo più di quattro ore per percorrere gli ottanta chilometri sulle serpentine, il treno ci mette il doppio. Me ne voglio di non esser stata abbastanza banale da prendere il trenino, ma più che un mezzo di trasporto è un mito turistico.
Non ho bisogno di aprire lo sportello della jeep e disincastrarmi dal signore che per tutto il viaggio mi ha praticamente tenuta in braccio, per rendermi conto che fuori farà veramente freddo - il 95 percento del paese è avvolto nelle dense nuvole che impediscono vedere altro che le proprie gambe, e siccome il paese è un continuo salire, la situazione peggiora solo, soprattutto a piedi. Mi avvolgo nel sacco a pelo e comincio a setacciare gli alberghetti a due soldi, distanti uno dall’altro centinaia di scalini ripidissimi, alti, e di salite fangose. Mi riprometto di non fare più lo sbaglio di barattare le mie guide Rough Guide per quelle della Lonely Planet : non un alloggio corrisponde al prezzo e locazione indicati.
Trovo infine un vecchissimo albergo, vuoto, se non per il ‘receptionist ’ che funge anche da muratore, cameriere, e la donna delle pulizie. La struttura è vuota, enorme sia di ampiezza che di altezza, e fatta a labirinto. Essendo l’unica cliente presente nell’albergo, mi viene proposto di scegliere la mia stanza. Non resisto a quella all’ultimo piano, dentro a una torre, le cui finestre si lasciano la minuscola cittadella alle spalle, per mostrarmi le meraviglie del paesaggio in cui mi trovo. La mattina, se ti svegli prestissimo, prima della nebbia, godi di uno spettacolo incredibile - la zona montagnosa in cui Darjeeling si è sviluppata ( ad oltre 2000 metri sul livello del mare), merita più di tutto : quattro delle cinque vette più alte del mondo offrono una vista che toglie il fiato, e da alcuni punti lo sguardo può spaziare su circa 250 chilometri di orizzonte himalayano, compreso l’Everest. Ma anche guardando solo giù nei giardini e infinite piantagioni di tè, Darjeeling ha una suggestione da confini del mondo, da località remota. I monasteri rilasciano una leggera scia di incensi, canti sereni, strumenti delicati, musichette che risuonano in testa per ore intere. Alcune donne raccolgono le foglie di tè sulle coltivazioni, con pesanti ceste di bambù sulle spalle, e respirando lasciano una nuvoletta di aria calda dissolversi nel freddo. Altre lavano i vestiti all’alba, con grossi pezzi di sapone solido, nei pozzi, sperando che s’asciughino sui tetti delle loro capanne prima che l’estrema umidità che sarà a breve all’apice, ritorni a regnare fino al giorno successivo.
Il tutto è in notevole contrasto con gli abitanti dell’ultima generazione, così diversi dai ‘soliti ’ indiani : qui hanno tutti la pelle molto più chiara, tratti nepalesi e buthanesi, e i giovani vanno pazzi per i jeans e gli occhiali da sole, cosa mai vista nelle altre città. Persino il carattere è diverso : tutti molto discreti, nessuno urla, corre, chiede soldi. Addirittura l'onnipresente clacson viene suonato in modo più delicato.
La baracchine offrono tutte il classico ciai indiano, e solo pochissime di loro anche carne, oltre al famoso thali vegetariano. Ovunque ti fermi, siedi o giri, scopri che mai un’abitazione copre la vista dell’altra : danno tutte sulle splendidi valli. Nella piazzetta, innumerevoli barettini servono centinaia di thè diversi - dove, se non qui - e tutti passeggiano lentamente tra i cavalli, la pioggia, cani e scimmie, come se l’unica cosa da fare al mondo fosse quella di stare tranquilli.
Nonostante la zona di Darjeeling sia famosa proprio perché detiene circa il 25% della produzione teifera nazionale, pochi sanno che la prima pianta di te' e' stata portata dallo stato di Assam (nell'India orientale, ai confini con la Birmania), la mia prossima meta.
Alle otto di sera, il mondo si ferma letteralmente - i ristorantini e le poche illuminazioni pubbliche vengono spente senza pietà, le scimmie che di giorno si muovono in branco e attaccano gli sprovveduti come me, che trasportano tranquillamente le banane in mano, dormono da tempo, e in giro non c’è un esser umano. Nel buio totale anche la luce di una mini torcia sembra un faro, ma i suoni della foresta e l’atmosfera surreale fanno sì che accelero il passo. Un po’ per il freddo, un po’ per l’articolo che ho letto oggi sul quotidiano : la zona accusa frequenti attacchi di tigri scese dal loro habitat naturale per mancanza di cibo, per colpa dell’uomo che restringe sempre di più il loro territorio, costruendo. La foto sul giornale lasciava poco spazio all’immaginazione : un coltivatore, mentre cerca di scappare, viene decapitato con un solo morso di una femmina adulta la quale viene abbattuta con un fucile a suo turno.
Chi viene qui per visitare i classici punti di interesse e proseguire nel viaggio, fa presto : a meno che non si arrivi apposta per fare della città un’ottimo campo base per le spedizioni sulla neve, alla ricerca dello Yeti, in due giorni la si gira comodamente tutta.
Lo Zoo, oltre agli esemplari di animali che vivono solo in questa regione, è lo Zoo più alto dell’India, e ospita un rarissima specie di lupo tibetano in estinzione.
Da Darjeeling, una discesa fatta di serpentina di cemento stretta e coperta di muschio scivoloso, porta al centro di rifugiati tibetani, ai piedi della valle. Qui la gente vive una vita propria, distaccata da quella della ‘città ’ su : minuscole finestre sono state trasformate in negozi di caramelle con la vendita a pezzi, vecchietti sdraiati sui balconcini curati con tantissime piante, le mura delle casette dipinte di rosa, viola, giallo, piccole tendine alle finestre. C’è chi fuma, chi legge, che contempla l’assoluta pace in silenzio, guardando ciò che lo circonda come se fosse la prima e l’ultima volta che gli è concesso fare altrettanto. Alcuni interrompono la loro attività passiva di ammirazione sentendo i miei passi, e anche se per ora a Darjeeling son l’unica bianca ma non l’unica a fare questa strada, sembra quasi che le mie scarpe da trekking producano un rumore diverso, che fa sì che le persone si girino, mi sorridano e prima che io possa aprire bocca, mi indichino la direzione giusta.
Il centro dei rifugiati tibetani pare desolato a prima vista, e le intere famiglie che occupano questo villaggio sembrano disinteressate a tutto ciò che arriva dalla serpentina. No, non voglio essere l’ennesima persona che vuole farsi una foto con un bambino tibetano in braccio, voglio solo acquistare i loro prodotti artigianali per svolgere un’azione di solidarietà. Ma nemmeno quello li convince a sorridere per finta, continuano a ignorare la mia presenza e io mi sento male per aver violato la loro vita, quella che dipende unicamente da un cappellino di lana venduto a persone come me.
Ritornando verso su, trovo una vecchia porta di legno alla quale è attaccato un pezzo di carta con scritto ‘La nostra storia. ’ La apro e davanti a me si spalanca un mondo intero e terribilmente pieno di violenze sui tibetani, cominciate anni prima che io esistessi, ma nonostante ciò ancora in corso. Foto rubate, censurate, oggetti antichi e libri sacri come l’unica prova del fatto che il loro paese esiste a sé, che loro non appartengono alla Cina e caratterialmente son lontani anni luce da essa. Bambini spariti, presi come ostaggi, sottoposti a violenze che nessuno meriterebbe - è tutto qua, nero su bianco. Se solo immagino che una delle donne che non sorride, è la figlia del signore torturato e bruciato vivo sullo scatto, mi viene su una rabbia infinita.
Le stanzette contenenti le brutali testimonianze di un popolo pacifico e devoto non finiscono più e io mi rendo conto che non c’è acquisto al mondo che io possa fare per renderli di nuovo quei tibetani che si possono permettere il lusso di vivere nella loro terra.
Prima di uscire con uno stato di animo alterato, la mia attenzione si sposta su una pagina scritta da Dalai Lama, anni fa, e già dopo poche righe la sua totale ragione abbinata al contesto in cui mi trovo, mi strappano un pianto. Liberatorio, solitario, triste, ma grato : grato di avermi riaperto gli occhi che nella nostra giungla umana occidentale mi si stavano richiudendo.
Il Paradosso della nostra era
Abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse,
autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.
Spendiamo di più, ma abbiamo meno, abbiamo case più grandi e famiglie più piccole,
più comodità, ma meno tempo. Abbiamo più istruzione, ma meno buon senso,
più conoscenza, ma meno giudizio,
più esperti, e ancor più problemi,più medicine, ma meno benessere.
Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà, ma ridotto i nostri valori.
Parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso.
Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere, ma non come vivere.
Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.
Siamo andati e tornati dalla Luna, ma non riusciamo ad attraversare il pianerottolo per incontrare un nuovo vicino di casa.
Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.
Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima. Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.
Scriviamo di più, ma impariamo meno, pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.
Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.
Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta, grandi uomini e piccoli caratteri, ricchi profitti e povere relazioni. Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi, case più belle ma famiglie distrutte. Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta, della moralità a perdere,dei corpi sovrappeso, e delle pillole che possono farti fare di tutto, dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.
E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino.