Avevo solo fatto click su Myanmar Latest News e mi aspettavo di vedere tutto tranne la faccia gonfia di un monaco bastonato a morte, giacente in un fiume birmano. Le pallottole impazzite del governo militare non hanno fatto distinzione e a terra cade anche il corpo di un giornalista straniero, senza vita. Con lui la sua macchina fotografica che non ha nascosto in tempo.
Sarei potuta esser io, penso.
Le immagini del documentario inedito “Burma Vj” parlano chiaro: l’uomo è il peggior nemico dell’esser umano.
L’inquadratura, accompagnata da urla disperate dei locali, scivola sul marciapiede, là dove finisce anche Koto: uno dei 6 birmani che, per contribuire al cambiamento radicale nel suo paese, rischia la vita riprendendo di nascosto la manifestazione di Yangoon, di cui il mondo intero ignora ancora l’esistenza. Ogni sera, i minuti rubati vengono illegalmente mandati tramite internet a un suo contatto in Scandinavia, che a sua volta accumula il materiale, le telefonate, e informa le tv del mondo sull’accaduto. Solo molto tempo dopo, il pianeta scopre le atrocità che il governo riserva al suo popolo buddista e indifeso, dominato dalla dittatura.
Koto scappa. In Thailandia, diciamo. I suoi collaboratori vengono arrestati, alcuni spariscono nel nulla. Il turismo già inesistente cala, le case editrici boicottano addirittura le guide sulla Birmania, chiedendoci di non 'supportare la dittatura del governo visitando il paese.' A me sembra una richiesta che non fa altro che assecondare la decisione del governo – ovvero tenere il popolo isolato dal mondo intero, in modo da renderlo ancora più sottomesso, disinformato e impotente, senza alternative di vita e diritti umani.
Loro, i birmani, sanno di esser fucilati se sorpresi in cima alla montagna in un monastero, in possesso di una radio mentre cercano di captare qualche frequenza straniera per ottenere informazioni del proprio paese che per comodità li tiene all’oscuro di tutto. Loro, alla ricerca del mondo che non conoscono.
Io, donna europea, so di esser molestata, per le vie dell'Europa, perché vivo in un mondo che conosco.
Parto.
La regola è quella di sempre – niente posti turistici e raggiungibili da chi pensa di familiarizzare con una cultura solo perché passa due settimane in un resort a sorseggiare i drink. Niente alberghi, niente guide che mi faranno incontrare solo persone che seguono la classica attrazione turistica. La macchina fotografica, il diario, il kit del pronto soccorso, il gps satelitare e i contanti – la Birmania, la culla dei templi, è totalmente sprovvista di bancomat. Non si paga nemmeno con le carte di credito.
E’ la prima impressione quella che conta. E l’afa a parte, nei pori mi penetrano tutte le sensazioni trasmesse da questi esseri minuti, perennemente sorridenti, che sputano del liquido rosso uguale al sangue. (Bettel nut: masticano foglie e radici che servono a tenere il corpo sveglio per lavorare e produrre di più, cioè quel mezzo dollaro al giorno necessario per sfamare la famiglia. )
Ovvero gioia, paura, curiosità, perplessità, felicità, povertà. Che, stranamente, non sconfina mai con la disperazione, autocommiserazione ne arrendevolezza.
Persino i disoccupati - praticamente tutti - sono sempre indaffarati nel fare qualcosa apparentemente insensato: spazzano i marciapiedi luridi sommersi dagli sputi, scarafaggi e roditori, ma in realtà spostano solo la sporcizia verso qualcun altro che a sua volta la spazza più in là. Riparano le protesi delle tante vittime del paese più sfortunato al livello dei disastri non solo naturali, ma anche (dis)umani. Per 10 centesimi aggiustano gli ombrelli ma quando piove, mettono il casco: sul motorino invece non indossano nulla. E, quando c’è il sole, usano l’ombrello.
Ognuno di loro si è reinventato, in qualche modo, e mi commuove il loro senso del dovere, responsabilità, autosufficienza, sacrificio. Da un lato della strada una donna poverissima vende le uova. Di fronte a lei, un uomo smercia le banane. Solo vendendo un uovo al suo collega, la donna può permettersi di comprare una banana, quindi il profitto è sostanzialmente nullo, eppure nessuno guarda il lato materiale.
Quasi inciampo sulla protesi di un senzatetto che per comodità l’ha staccata e appoggiata per terra, di fianco al moncone della sua gamba sinistra. Imbarazzata, mi scuso, e nonostante l’uomo non parli nessuna lingua a me comprensibile, si mette a ridere, la lancia dietro di sé, e continua indaffarato a riparare dei piccoli cinturini in pelle. Capisco che è un ripara - tutto e con l’idea di contribuire al suo stipendio, mi viene in mente di rompere un cinturino del mio zaino, per farglielo rimettere a posto e pagarlo. Una cosa importante ho imparato nei miei viaggi attraverso il sud - est asiatico: le persone non hanno nulla, ma possiedono una dignità invidiabile, e nessuno vuole sentirsi commiserato. I soldi, il cibo, il sorriso, se li vogliono guadagnare e meritare. Perciò il comportamento degli occidentali che, per sentirsi meglio, buttano loro banconote senza criterio, risulta in realtà un gesto molto offensivo e poco rispettoso.
Un po’ come quelli che per ‘beneficenza’ intendono il portare un chilo di caramelle ai bambini Masai in Kenya, non considerando che non causano altro che guai ai bambini: caramelle = carie = dolori = nessuna assistenza medica. Farebbero molto meglio a portare loro gli spazzolini.
Spiego a gesti all’uomo cosa è ‘successo’ al mio zaino; lui con grande deontologia mette da parte il suo lavoro in corso, indossa un occhiale con una lente sola e spaccata in due, e considera seriamente il danno. Senza tante parole, si mette a lavorare. Mi siedo sul terriccio sudicio, ignorando gli sputi rossi dei bettel nuts, osservo la protesi che ha la forma e la taglia del tutto sbagliata per lui, e gli rullo una sigaretta di tabacco che lui accetta, ma non la accende: non so se lo fa perché se la godrà con altri 7 amici o perché il lavoro viene prima. Quando finisce, gli offro dei soldi. Mi guarda sorpreso e contrariato e scuote la testa. Aggiungo un'altra banconota e lui scuote la testa ancora più freneticamente. Dice qualcosa di incomprensibile ma sento che è qualcosa di bello; si picchietta sul cuore, sorride, e fa il gesto di rifiuto con la mano. Come per dire: ho voluto aiutarti, non guadagnare su di te. Insisto un’altra volta ma non c’è verso, allora lo ripago con un abbraccio che lui accetta volentieri e penso: grazie per trasmetterm la vera ricchezza del mondo.
Compro comunque una busta di articoli utili, dal cibo al sapone, e torno indietro. Non la vuole ma vedo che sbircia nella busta.
“Please“, dico, congiungo le mani in un wai rispettoso ed è il mio turno per picchiettarmi sull’aorta, nel segno di un gesto veramente sentito che viene dal cuore. Ed ecco che si tira su con la stampella e mi riabbraccia di nuovo.
E’ solo il primo giorno e non posso mettermi a piangere perché immagino che fuori dalla capitale, incontrerò altre migliaia di persone e situazioni che mi faranno sentire così bene e male allo stesso tempo.
Vado alla ricerca di un pernottamento che non sia del governo e questa sì che è missione impossibile: scopro che gli hotel che portano il nome della città in cui risiedono, sono 100% del governo. Altri piccoli dormitori risultano privati e infatti la differenza di prezzo è notevole. Voglio contribuire al benessere economico di un famiglia privata anche a costo di dormire nella stalla, e allora mi metto a camminare. Non mi pesa sudare, perdermi, non trovare ciò che cerco: sono già assetata di questo paese, dell'atmosfera che l'avvolge. No, non è magica. E' di più. E' stranamente completa, pacifica, serena, buia ma positiva. Ogni vicolo da me percorso, accontenta uno dei miei cinque sensi, dall'incenso dei templi, sbirciatine nelle baracche, fino al sapore di una gelatina dolce offertami da una bambina con thanaka (pasta cosmetica ottenuta dalla corteccia degli alberi) sul viso.
Senza la guida sia cartacea che umana, è tutto più lungo ma indubbiamente anche più eccitante. Le uniche indicazioni visibili sono scritte in birmano, un alfabeto incredibilmente bello, tanto da farmi chiedere se oltre all'estetica abbia anche un'altra funzione.
Chiedo di tutte le direzioni a tutti i passanti e mi sorprendo di vedere alcune reazioni: c’è chi scappa, c’è chi non mi capisce, c’è chi scuote la testa, c’è chi mi manda a sinistra. Solo dopo un’ora e uno spaesamento geografico totale, incontro un tipo con occhi loschi che si guarda intorno di continuo. Gli chiedo se mi può aiutare.
“Vediamoci dietro a quell'angolo tra poco“, dice e sparisce.
Sposto i miei contanti dalla tasca alle mutande - in questi paesi, molestare è un reato molto più grave che derubare, cosa che ho imparato sulla propria pelle durante uno scippo in Vietnam. Raggiungo il tizio.
Parati dall’ombra di un albero e dalla scarsa illuminazione, il tizio mi dice di sedermi di schiena, mentre lui parlerà. Così da lontano sembra che non stiamo comunicando. Mi chiarisce subito alcuni punti: non esiste un dormitorio privato in Birmania, il popolo è stato obbligato a fare da prestanome per alcune attività, in modo da fare credere al mondo esterno che abbiano concesso qualche diritto agli abitanti. Ma i soldi vanno comunque al governo. Punto due: in banca un euro vale 450 kyat e ogni banconota, in base al taglio, ha un suo valore. Non può essere minimamente piegata o danneggiata, altrimenti non la cambiano. E' un paradosso immenso, se si pensa che le banconote birmane sono sudici pezzettini di carta consumata, vissuta e stracciata.
Sul mercato nero invece un euro vale ben 1000 kyat, più del doppio. Il popolo non ha il diritto di possedere le banconote straniere e se trovato con valuta diversa da quella birmana, va in galera - vuol dire che è stato a stretto contatto con ‘qualcuno da fuori’. Per questo, per quanto qualcuno voglia ospitarmi e io pagarlo, non è possibile. Non è possibile nemmeno gratuitamente - sarebbe come fare la ‘spia’. Altrettanto ogni zona della Birmania richiede il proprio permesso di transito, il che vuol dire che ogni 100 km devo recarmi all’ufficio che rilascia il permesso valido alcuni giorni, a disposizione per la regione in questione. Solo la metà delle regioni lo rilascia; l’altra metà rimane un tabù assoluto, persino per i birmani. Non parliamo naturalmente dei posti con i resort, costruiti ad hoc, che vendono i permessi nelle zone turistiche e fanno incassare al governo. Se esco dal territorio per cui il permesso è valido prima della sua scadenza, esso si annulla automaticamente senza che io possa rifarlo - devono passare alcuni mesi tra un a visita e l’altra.
Sono contenta di esser di schiena; se il tizio vedesse la mia faccia, in questo momento, si metterebbe a ridere. La prima cosa che mi frulla per la testa è come fare a viaggiare per due mesi attraverso il paese con tutto il contante che mi toccherà avere addosso: non essendoci nessun bancomat, sono dovuta arrivare con il cash. Non potendo scambiare l’euro per il kyat che nella capitale - mentre la mia meta sono i luoghi disabitati - dovrò cambiare tutti i soldi qui, tenendo conto che se un euro sono 1000 kyat e con soli 5 kyat si cena, dovrò procurarmi un altro zaino solo per i soldi.
L’uomo misterioso mi accompagna in una cantina semibuia, sempre con 100 metri di vantaggio, mi presenta una donna con cinque buste di plastica in mano e mi chiede quanto voglio cambiare.
“800 euro“, dico.
Al che mi passa direttamente tre buste intere e toglie alcune mazzette dalla quarta, prima di darmi anche quella.
“Sono giusti, ma contali“, suggerisce.
Senza volere scoppio a ridere, perché ho appena capito come passerò i due mesi della mia avventura: a contare i soldi.
Un’ora e due chili in più tardi, vado a cercare una sim, in quanto per qualche strana ragione la mia non funziona. Ed ecco che scopro che anche quello è solo un trucco del governo: a disposizione una sim birmana dalla validità di al massimo 28 giorni, dopo di che scade, così che se qualche birmano dovesse potersela permettere, non potrebbe comunque rimanere in contatto con gli stranieri. Ora mi spiego meglio i telefoni fissi lungo la strada, attaccati a qualunque cavo elettrico, gestiti dal popolo. Idem per l’internet - nessun sito di ricerca a disposizione, Google inesistente, nessun collegamento a nessun'informazione. Ma volendo posso giocare a Tetris.
Anche lì, l’uomo misterioso mi consiglia di chiedere ai gestori di questi utilissimi internet point di vendermi la formula magica che precede un indirizzo internet, in modo da craccare il sito di mio interesse e visualizzarlo.
Al tira e molla dell’ufficio ‘permessi per le zone sorvegliate’ risulto l’unica non birmana: una donna chiede il permesso per poter tornare a visitare la sua famiglia nel villaggio in cui è nata, un anziano chiede il permesso per assistere al funerale di un parente, un’altra donna vorrebbe vedere il suo marito che lavora in un’altra città e che non vede da mesi.
E io ?
Io vorrei andare da qualsiasi parte, e non per un motivo solo, ma per mille, perché ho già capito che questo paese non va visto, visitato e fotografato; va vissuto, annusato, percepito e assorbito. E io lo farò.
Ma questa sarà un’altra storia...
(To be continued.)