Con il mio permesso per una parte della Birmania del sud in mano, mi avventuro sulla nave locale verso Patthein, città in cui “non c’è nulla di interessante da vedere”, secondo le recensioni. Il traghetto è naturalmente di proprietà del governo ma ahimè è anche l’unico modo per raggiungere questa città ‘poco’ interessante - non ho il diritto di attraversare le zone che la precedono, se non via mare e sotto sorveglianza. Mi sono sempre chiesta quali fossero i criteri che definiscano una città interessante o noiosa e credo che sia un po’ come con le domande stupide, che non esistono: esistono solo risposte stupide.
Vengo segregata in una cabina ‘VIP reparto stranieri‘ che mi impedisce la visuale sul reparto 'Burma', e davanti alla porta, per 180 km da percorrere in 18 ore, si piazza un funzionario che mi sorriderà per il resto del viaggio, sempre alle calcagne. Con la scusa di dover usare la toilette - traduco, usufruire del bagno vip chiuso a chiave che offre un buco nel pavimento e dell’acqua piovana come bidet - lo convinco a non accompagnarmi ma a tenere d’occhio la mia ‘suite’. Appena giro l’angolo, corro giù per le scale verso il reparto burma: 3000 individui ammassati su una piattaforma che ne può contenere appena la metà, non riparata da nessun fenomeno della natura. Mi sembra un groviglio di corpi non identificabili, un cimitero di carne viva. Sento le risate, i pianti, i lamenti, odore di sonno e di urina, il tutto misto ai rumori dei neonati, capre che vengono munte, e vecchi morenti in attesa di concludere quest’avventura infinita. Solo i più 'fortunati' hanno più spazio nelle zone laterali, ma in cambio devono affrontare il monsone in pieno.
Temo di fissare troppo insistentemente quest’ atmosfera umanamente agghiacciante ma eccitante, ma no - sono i birmani a fissare me. E’ come se si chiedessero: noi dobbiamo, ma tu? Perché lo fai? S’inchinano ad ogni mio passo, mi sorridono e propongono in continuazione un pugno di riso in bianco a cui rinunciano volentieri pur di lasciarmi una buona impressione del loro paese. Commossa, voglio esser una di loro, e allora mi incastro in mezzo, per terra. Mi toccano la pelle bianca, i capelli chiari, indicano l’occhio blu e ridono, osservano con facce preoccupate le mie lentiggini, come se fosse una malattia contagiosa.
Poi arriva il fischio.
Non quello simpatico; quello severo, di un fischietto - corto e assordante. Passa un uomo in uniforme e lo spazio intorno a me si allarga - tutti si allontanano da me più in fretta possibile. Il funzionario non ha un’espressione pacifica, urla avvicinandosi a me, pestando ciò che trova sotto i piedi. Sgrida tutti, poi mi guarda con un sorriso smagliante:
“Mi dispiace che Lei si sia persa, la accompagno su.“
“Grazie, ma io sto bene qui“, dico, “magari resto e possiamo dare la mia cabina a una famiglia con i bambini.“
“Mi dispiace che lei si sia persa, la accompagno su“, ripete ignorando le mie parole, sorridendo, riportandomi su. Di colpo percepisco il vero significato del suo sorriso: togliti da qui.
Quella è solo la prima notte in cui non dormo: il mio corpo non riesce ad assorbire ed elaborare le emozioni e l’attenzione che dedico a ciò che mi circonda. Come si fa a trattare così le persone, ad ammazzare questi esseri meravigliosi? Perché il paese protegge noi stranieri, e maltratta il proprio popolo? Perché mi proteggono da esseri mille volte più innocui di me? Non cerco una risposta, quella ce l’ho ed è ovvia, se parliamo della dittatura. Io cerco una soluzione. Così come ci ha provato, la rivoluzionaria Aung San Suu Kyi, ed ecco che fine ha fatto.
Dietro la zanzariera bucata della cabina, un bambina con occhioni grandi a thanaka sulle guance, aggrappata alla porta, mi guarda seria. Le sorrido.
“Mingalaba“ , saluto e agito la mano, nel caso avessi pronunciato male la parola birmana e al posto di ‘Ciao‘ detto ‘carciofo’. Il ghiaccio è stato rotto: un quarto d’ora dopo, avvinghiata al mio collo, ride felice mettendo in mostra i suoi dentini da latte cariati. Lei, che ancora non ha la coscienza della vita che l’aspetta. Lei, che non sa che gli stranieri portano non solo la diversità, ma anche i guai. Mi chiedo a chi appartenga questa bimba, è ore che nessuno la reclama. Divido con lei il mio pasto compreso nel prezzo della ‘suite’ - un piattino minuscolo di mais.
L’evento attira altri bambini diffidenti, meravigliati, sorpresi, soli. La mia amichetta non perde l’occasione di soffocarmi di abbracci appena qualcuno mi guarda, come se avesse paura che io possa scegliere un altro bambino. La cosa più toccante è il comportamento degli altri bambini: letteralmente randagi, affamati e sporchi, ma nessuno di loro chiede o allunga la mano verso il nostro piattino. Recupero le mie conserve di viveri per i miei casi d’emergenza - mai potrò avere più fame di loro - e preparo un vero e proprio buffet.
Un suono che riconoscono tutti tranne me fa sì che alcuni bambini scattano in piedi, mi abbracciano in fretta, corrono lungo il corridoio della nave e si lanciano dritti giù nell’acqua, vestiti. Stupita li rincorro ma ormai nuotano verso la riva del fiume, verso le baracchine cui verande sono occupate da mamme, nonni, fratelli, tutti immobili a guardare l’unico mondo - noi - che passa loro davanti.
La nave è così lenta, che mentre passa davanti alle baracche, i bambini fanno in tempo a salirci, sperando di trovare degli avanzi di cibo, bottigliette di plastica, qualche oggetto scordato, ributtarsi nel fiume e raggiungere a nuoto le loro dimore.
Altrettanto gli adulti hanno tutto il tempo per effettuare lo ‘ scambio merce‘: cibo, galline, pecore, bambini, pacchi, riso. Durante il viaggio, altri importanti passaggi avvengono : quando incrociamo la nave che viaggia nel senso opposto, ci avviciniamo a essa e ci fermiamo per 10 minuti. Il tempo sufficiente per concludere altre attività curiose: passaggio di un motorino dalla nostra nave all’altra, venditori di gallette con cestini in testa si arrampicano sulla nostra parete per vendere qualche pezzo in più, una capra sospesa tra una nave e l’altra scalcia mentre riceve un nuovo proprietario, alcuni passeggeri invertono il senso di marcia e cambiano direzione saltando da noi, un giovane padre passa un neonato alla madre e continua il suo viaggio.
La sfortuna di avere cambiato così ‘tanti’ soldi significa avere principalmente le banconote da 1000 kyat e incontrare raramente chi ha abbastanza soldi da avere il resto. Il ragazzo delle gallette da 5 kyat ciascuna mi fa il segno di aspettare, sperando di venderne così tante da potermi saldare nonostante gli abbia detto di tenersi il resto o distribuire le gallette rimanenti ai passeggeri. Le navi si staccano e lentamente s’allontanano; ed ecco che vedo il venditore posare la cesta per terra, fare un salto sulla nostra nave, ridarmi il resto ringraziandomi, tuffarsi nell’acqua e raggiungere la sua cesta arrampicandosi a una fune che viaggia in direzione opposta. In questi pochi minuti, due meravigliose cose sono successe: nessuno dei passeggeri ha toccato la sua cesta, rubato una sola galletta. Lui non se ne è approfittato pur sapendo che non mi avrebbe mai più rivista e mi ha riportato il resto. Voleva che mi ricordassi la sua onestà e il suo paese con sorriso.
Quando finalmente arriviamo, una giovane donna mi chiede il permesso di prendere in braccio la bambina che ancora non si è staccata da me, sorvegliata dal suo amichetto con faccia adulta e un mitra di plastica in mano. Incredibile; la donna è la mamma di entrambi e anche se io non l’ho mai vista, lei sapeva benissimo dove fossero i suoi figli. La bambina piange disperata per la separazione, il fratello continua a puntarmi il mitra in testa, la madre mi ringrazia.
Io riempio i miei polmoni di ossigeno più volte di fila, rimetto gli occhiali da sole nonostante di sole non ci sia nessuna traccia. Se piovesse, non li metterei, così le mie lacrime potrebbero confondersi con il monsone. Ma non voglio farmi vedere piangere: come spiegherei alle persone che mentre loro, privi di tutto, sorridono, io, la straniera fortunata a cui non manca nulla se non la possibilità di cambiare qualcosa, piango ?
La discesa dalla nave incontra qualche difficoltà: qui il fiume si è allargato talmente tanto da inondare il molo e i marciapiedi. Ci scaricano uno per uno su una barchetta per avvicinarci il più possibile alla riva ma anche qua, la manovra si rivela infattibile. A una trentina di metri da terra ferma visibile, ci chiedono di lanciarci nel fiume e nuotare. Nessuno fa una piega, ognuno carica la sua merce più preziosa in testa - riso, figlio, gallina - o l’annoda su un bastone, e si lancia nell’acqua. Se penso al mio diario di viaggio cartaceo e alla Nikon paragonabile a una mia prole personale, mi viene qualche dubbio. Ma anche ora, i birmani non mi deludono: caricano il mio zaino su uno dei bastoni che tengono a pelo d’acqua, io mi carico in testa lo zaino con la Nikon e accompagnati dall’acqua nera, spazzatura galleggiante e persino un topo nuotante, raggiungiamo la riva.
Mi torna in mente la definizione di Patthein: città 'non interessante'. Dire che qui il tempo si sia fermato, sarebbe una bugia, perché tutto si muove in maniera frenetica. Ma si respira un’aria triste, rassegnata, persino più povera di Yangoon. Qui alcuni senzatetto hanno smesso di lottare; i loro corpi giacciono sui marciapiedi, senza nessun accenno di voler andare avanti, come se fossero in attesa della fine. Regna una totale rassegnazione, mista all’inspiegabile caldo e umidità che non aiutano. Qui i sorrisi sono rari, ma non lo sono purtroppo i corpi immobili di alcuni uomini, con siringhe sparse intorno.
Eh già; qui il costo dell’eroina e la facilità di procurarsela è quasi uguale all’acquisto di una bibita o del cibo. A pancia piena si ragiona indubbiamente meglio; a pancia vuota, ma da ‘fatti‘, non si ragiona proprio, e viste le condizioni di vita, qui il popolo si è arreso e non vuole più dover ragionare.
Il flusso del turismo da queste parti è naturalmente nullo, perciò ogni speranza di riuscire a guadagnarsi qualche centesimo, muore insieme a tante persone. Non per questo cambio meta; so che da sola non posso migliorare le condizioni di tutti, ma nel mio piccolo so di poter almeno provarci.
Cercare una farmacia si rivela un’altra utopia; qui gli antibiotici, disinfettanti, cicatrizzanti e le bende vengono venduti nei posti più inimmaginabili, insieme al concime, tubi e marmitte. Le garze non sono sterili; sono persino state aperte e tagliate - così ognuno può acquistare solo la lunghezza che gli serve. Tutti i medicinali son rigorosamente scaduti di qualche anno. Faccio il rifornimento e uscendo dalla baracca, non so dove cominciare - dal signore con pustole aperte a vista che cuoce sotto al sole, incapace di spostarsi? Dalla bambina scalza con tagli aperti? Il tossico con braccia sofferte? Una signora vecchia?
Mi torna in mente una frase che mi sempre toccata : Non c’è uomo più alto al mondo di colui che si china per aiutarne un altro.
Mentre ci penso e respiro con la bocca per non sentire l’odore del tossico che più che di escrementi sa di morte imminente, mi si avvicina un ragazzino giovane. Si ferma a 5 metri da me. Ha un’espressione molto seria, adulta e partecipe.
“Vorrei tanto conoscere uno straniero“, dice uno in un inglese perfetto, finora mai sentito in Birmania.
Essendo l'unica bianca in giro, presumo si riferisca proprio a me, e sorrido con un misto di fierezza e imbarazzo. Una volta distribuite le bende e le pomate spalmate, guardo i due bene in faccia, ma non trovo nessun accenno di malizia o altro interesse: solo curiosità, speranza, gioia, un po' di timore, aspettativa, timidezza.
"Su", dico, "venitemi a raccontare la vostra vita", e m'incammino verso la periferia, e senza dovermi girare so che mi stanno seguendo, a debita distanza.
Ed è così che dò vita a un'amicizia speciale, è così che per un frammento di quella vita entro a fare parte delle loro famiglie, a mungere le loro mucche, a mangiare dalle loro ciotole, a ridere facendo battute nella lingua dei segni.
Ma quello sarà un altro racconto :)