A quante cose bisogna pensare quando si prenota un volo? Beh, tantissime: oltre alle più ovvie quali prezzi, orari e scali, per me un criterio da considerare è anche quello di vedere dall’alto il paese che sto per scoprire, sia di giorno che di notte: mi aiuta a rendermi conto delle dimensioni e dell’energia che mi aspettano. Motivo per cui cerco sempre di prenotare un volo di giorno e uno di notte.
I panini dell’Alitalia sono più freddi e duri di un inverno in Kamchatka, e la simpatia del personale è quasi una garanzia: dopo loro, il popolo libanese non potrà che risultarmi simpaticissimo. Hostess preistoriche e maleducate comunicano a gesti come se stessero dando ordini ai bambini sordomuti cattivi. Fortunatamente il volo è abbastanza lungo da fare scongelare il macropanino con una mezza fetta di salame. “Va bene così, Andrea”, mi dico “nulla succede a caso. Almeno apprezzerai la cucina libanese ancora di più.”
Già, il Libano.
Un paese non proprio turistico, conosciuto, cercato. Nemmeno considerato come una meta. Nemmeno, spesso, considerato come una parte della mappa.
“Libano? Ah dici Libia? No? E dov’è?”, è la reazione più frequente alla mia risposta a “Dove vai questa volta?”.
Dopo un veloce chiarimento sulla posizione geografica e due-tre note storiche sul paese, le frasi diventano “Ma perché vai lì?" e "Sei matta/Non andare/Ma la guerra/E i musulmani/ Ti stupreranno/Ti terranno come ostaggio/È pericoloso.”
Ho sempre pensato: meglio vedere una volta piuttosto che sentirne parlare mille volte.
Vado e vedrò.
Le luci della città, quando atterro alle 3 di notte, sono tantissime, colorate e potenti. Mi sembra di volare sopra Doha.
Solo per una questione di praticità, e visto l’orario, per la prima volta ho prenotato il taxi che mi porta all’alloggio. Per orientarmi e organizzarmi con i mezzi pubblici avrei bisogno di una connessione, ma il costo della sim card libanese con dati internet batte quasi il mio budget settimanale.
I controllori aeroportuali non hanno nemmeno lontanamente il mio stesso entusiasmo e sono severissimi. Ringrazio il cielo di essermi ricordata di cambiare il passaporto e non presentarmi col timbro israeliano.
“Hai due occhi bellissimi”, dice il doganiere fissandomi e per un attimo temo che passerò i miei giorni a combattere con frasi simili. E io che me la prendo con gli italiani per la poca fantasia...
“Sono qui per te, bellezza!” urla un altro ragazzo quando varco la soglia degli arrivi e cerco nella folla qualcuno che possa essere il mio tassista. Sto quasi per cascarci pensando sia il ragazzo con il sorriso a 32 denti ma no; più in là appare un cartello Lehotska. L'uomo mormora qualcosa in arabo e con un cenno di testa mi indica di seguirlo.
Non mentirò: appena metto il piede fuori dall’aeroporto e faccio qualche metro per raggiungere la macchina, rimango un attimo titubante. Come prima impressione ho una sensazione veramente strana addosso. Nella scelta delle mie destinazioni, mi affido sempre al mio sesto senso, intuizione, un pizzico di follia e lo 'stomaco', ma questa volta uno dei quattro mi avrà fregata. Mi sembra proprio di aver sbagliato paese. Sarà la stanchezza, la febbre; voglio dormirci sopra per non dare giudizi affrettati.
La compagnia dei taxi ma ha mandato un sms con il nome del conducente e la sua targa, per evitare macchine abusive o altri spiacevoli malintesi. Il mio tassista più che arabo sembra svedese doc, non parla nessuna lingua e fuma una sigaretta dietro l’altra. Il trasporto costa 25 dollari; costo non troppo elevato considerando la comodità e l’orario, ma va detto che l’aeroporto di Beirut è veramente vicino al centro e se fossi arrivata di giorno, avrei o camminato o usato i famosi ‘servis’, ovvero taxi collettivi - non si fa fatica a trovarli, sono quelli che guidano con la mano posata perennemente sul clacson. Sono migliaia e oltre 10 volte più economici: non hanno l'insegna di un taxi ma suonano il clacson come se non ci fosse un domani, quindi è difficile non notarli. All'inizio può sembrare che ci stiano 'provando' o che vogliano dire 'spostati' - nulla di tutto ciò. Vogliono solo attirare l'attenzione, e mentre i primi giorni cammino girando la testa ininterrottamente da tutte le parti tipo la lancetta della bussola, dopo la prima settimana imparo quasi a ignorarli. Oppure mi è semplicemente peggiorato l'udito.
I semafori vengono ignorati da assolutamente tutti, che siano motociclisti, cani, macchine o passanti. La buona notizia è che i conducenti non sono accaniti con i passanti e non se la prendono con il primo cristo che sbuca sulla strada all'improvviso, anzi: regna una specie di precedenza per i bipedi.
E’ tutto un po’ malandato, e l’atmosfera, arredi e funzionari mi ricordano tanto la Slovacchia dei comunisti/socialisti: linoleum, neon intensi che hanno visto giorni migliori, tutto molto modesto, spartano e datato. Certo; il paese è stato raso al suolo, e per ricostruirlo avranno indubbiamente cominciato da cose più importanti.
Già dall’Italia, online, avevo adocchiato una pensione nel quartiere arabo Hamra: senza dubbio non una meta ambita come gli splendidi alberghi lungomare della marina, ma per chi vuole spendere poco, accontentandosi di altrettanto poco, è un ottimo punto di partenza. Gli standard libanesi potrebbero non risultare uguali a quelli europei, e quindi non bisogna meravigliarsi se un 3 stelle propone servizi di un ostello a Casalpusterlengo.
Dopo varie mail con il manager riesco a farmi abbassare il prezzo a 30 dollari a notte, colazione e pranzo compresi. Mi viene offerto un upgrade di camera e devo dire che la cosa mi rende molto felice, perché oltre alla spaziosissima stanza, godo di una posizione quasi silenziosa. (Trovate l’albergo qui ma ricordate: le foto del sito sono di anni fa :)
Eh già; i palazzi libanesi hanno un serio problema di isolamento acustico. I vetri non sono mai doppi e le finestre scorrono a destra e sinistra senza mai aderire veramente, anche da chiuse. Le strade principali, le vene del cuore della città, sono spesso a senso unico e di conseguenza brulicano di persone e macchine a tutte le ore e da tutti i lati. (Motivo per cui è saggio prepararsi a passare 49 minuti in un taxi/servis per percorrere 2 chilometri. Da ricordarsi di concordare il prezzo prima della partenza, anche sui taxi ufficiali, o insistere sul tassametro.) Oltre a questo, per qualche strano motivo, qui tutto fa un rumore amplificato: che siano impianti di ventilazione, ascensori, porte, aria condizionata, frigo o doccia. Considerando che l’80% di macchine sono taxi con la famosa mano incollata sul clacson, consiglio vivamente a tutti di convertirsi una volta per tutte ai tappi per le orecchie, quelli in cera. Se invece vi addormentate comunque e non sentite nulla, non mi rimane che invidiarvi in silenzio e proporvi una sfida ancora non vinta da nessuno: quella di condividere una stanza con mio padre che russa.
Il receptionist è di una disponibilità disarmante e mi dice di non cambiare i soldi in reception in quanto pagherei la tassa statale, cosa che ai vari baracchini di cambio non succede. (Ricordate, persino il cambio è trattabile! Troverete i baracchini quasi ufficiali ogni 50 metri lungo le strade, e anche i bancomat. Le carte italiane funzionano senza problemi, si paga una tassa fissa su ogni prelievo, e il costo dipende dalla vostra banca. Motivo per cui conviene ritirare poche volte ma somme cospicue, oppure pagare direttamente con il bancomat. Il dollaro viene accettato ovunque e senza problemi, ma aspettatevi il resto in lire libanesi. Personalmente ho preferito cambiare direttamente gli euro in lire, in quanto il valore dato al dollaro accettato è un po' approssimativo e alla lunga ci si perde.)
Mi cambia solo i 10 euro necessari per la consegna in stanza che si è offerto di organizzarmi: il da me amatissimo hummus e due bottiglie di birra. Nonostante l’alcol non sia illegale, nel quartiere musulmano dove risiedo, non viene proprio venduto: solo da pochi baracchini che ancora non conosco. Presto scopro che riuscire a trovare una bottiglia di vino take away serve a poco, perché la pensione, per lo stesso motivo religioso, non fornisce - giustamente - nemmeno l'apribottiglie. Ed è così che imparerò i mille usi delle forbici.
I marciapiedi sono i più stretti che abbia mai visto, e contengono tutto tranne lo spazio per camminarci sopra: pali senza senso, cemento senza forma, buche apparentemente utili, mendicanti, alberi, escrementi, o ragazzi che lucidano le scarpe. Gli uomini lanciano sguardi di apprezzamento, ma non volgari, non mettono a disagio. A volte fischiano o fanno rumori strani con la bocca, ma noto che lo fanno persino tra di loro. Si potrebbe pensare che approfittino dello spazio ridotto per 'strusciarsi', ma al contrario: si spostano educatamente di lato per fare passare le donne.
Cammino senza una meta e senza volere sapere dove, se e quando arrivo. E' sempre meglio sapersi orientare e ricordare alcuni punti riconoscibili, per avere una minima idea di dove si è, nel caso ci fosse bisogno di correre o semplicemente di ritornare. Le vie di Beirut non sono segnate molto frequentemente, solo all'inizio e alla fine della via, e considerando le loro notevoli lunghezze, è consigliabile dare sempre un'occhiata. Anche senza connessione internet, basta avere la geolocalizzazione attiva per vedere la propria posizione sulla mappa.
Regalo sorrisi a destra e a sinistra, e respiro felicità, libertà, e la gioia dello spaesamento. La scia di fragranze arabe che mi avvolge l'olfatto ogni volta che passo vicino alla sua fonte, mi fa innamorare perdutamente. E' ufficiale: so che amerò questo paese e sono pronta per concedermi a esso.
La presenza di innumerevoli militari muniti di mitra, in piedi sui carri armati, nei famosi checkpoint, caserme, vicini ai palazzi importanti o semplicemente sparsi ad un incrocio per tenere d'occhio tutti, può essere interpretata come invasiva o preoccupante. Nulla di più sbagliato: è grazie a loro che l'attraversare la città di notte, da sola e a piedi, diventa prima un'esperienza e poi un'abitudine senza la quale non mi addormento.
La prima notte verso l'ignoto, drogata di adrenalina, aspettative e curiosità, mi porta lungo la moschea islamica affiancata a una chiesa cattolica, fieramente illuminate nella notte pesta, cosi silenziose, imponenti e pacifiche, che è quasi incredibile immaginare che gli appartenenti a queste due meraviglie abbiano fatto più morti dei disastri naturali.
Oltre alle macchine, non ci sono ulteriori presenze in giro, ed è così che posso farmi inghiottire da ogni centimetro del cemento, i famosi cedri, i canti delle preghiere musulmane e il sali e scendi delle vie.
Un enorme e orribile poster pubblicitario pende lungo la parete laterale di un palazzo e coglie la mia attenzione. Illuminato nei quattro punti strategici, promuove i cellulari dell'ultima generazione. Probabilmente avranno voluto nascondere la facciata non proprio freschissima del palazzo, penso. Mentre scatto una foto al gioco che creano i fari in mezzo ai buchi nel muro e il buio totale, realizzo ciò che vedo, ciò che ho visto così tante, troppe volte, ma che continuo a non voler ammettere che possa esistere ancora: le chiara testimonianza di una guerra. Ciò che ora sembra una vecchia bacheca per appendere appunti o pubblicità, era il nido di centinaia di persone, centinaia di vite che come sempre, non c'entravano nulla con il conflitto che le circondava. Posto sbagliato nel momento sbagliato.
Eppure, ogni volta che assisto a tale ricordo palpabile di violenza, che sia in Sarajevo, Nagorno Karabakh, Palestina o qui, non lo accetto. La guerra, i bombardamenti, i proiettili o bombe vanno oltre alla violenza fisica - sono di una violenza psicologica estrema, un abuso, uno stupro, un terrorismo gratuito. Non solo per la paura di morire, ma per tutte le sofferenze annesse ben peggiori: dover cercare i figli dispersi, non poter salvare la vita a propria madre, e vedere pian piano la speranza spegnersi sotto il piede imparziale dell'impotenza.
Nei paesi che attraverso, questo aspetto non è raro, eppure spero di non diventare mai indifferente davanti a un palazzo cui fori dei bombardamenti mi fanno vedere persino un altro palazzo bombardato dietro di lui. Spero di non finire mai di rendermi conto di quanto io sia stata fortunata a nascere, senza merito proprio, in un paese in cui non ci bombardavano per prendersi un pezzo di terra. Chissà quanti di noi, giorno per giorno, sono grati di poter ancora tornare nella città in cui sono nati, invece di trovarla rasa al suolo. Chissà quante cose diamo per scontate.
Qualcuno potrebbe dirmi "C'est la vie, capita. Vabbè ma ora si son ripresi, no? Tu cammina e guarda da un'altra parte, quella bella che pubblichi sui social." Queste persone sono invitate a cliccare sulla crocina il alto a questa pagina, con la scritta "Chiudi."
Altre capiscono. Capiscono che queste fitte al cuore sono necessarie per nutrire la nostra consapevolezza.
Chiudo il minuto di silenzio per tutte le vittime in generale e socchiudendo un occhio e alzando un dito, sfrutto la prospettiva che si crea e 'accarezzo' quel palazzo che nonostante sembri una retina, si regge ancora in piedi.
Devo fare come il Libano: rimettermi in moto.
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